Regioni, Governo e imprese alle prese con il payback sanitario

Il sistema è stato pensato dai diversi governi per contenere la spesa sanitaria nazionale, ma le imprese chiedono la cancellazione della norma

Governo, Regioni e imprese del settore della sanità sono alle prese con la grana del ‘payback sanitario’, un sistema introdotto per i dispositivi medici con la legge di Bilancio 2015 (e più volte modificato) che prevede che, in caso di sforamento del tetto della spesa sanitaria da parte di una regione, una parte della spesa in eccesso venga rimborsata dalle imprese fornitrici (payback significa infatti ‘restituzione’). Questo in analogia con il meccanismo del payback già in vigore per la spesa farmaceutica (introdotto dalla legge di Bilancio 2007).

Il sistema del payback è stato pensato dai diversi governi proprio per contenere la spesa sanitaria nazionale, coinvolgendo gli attori principali, vale a dire le imprese fornitrici di mezzi e servizi, ma queste non ci stanno, anche perché, solo per i dispositivi medici, si parla di un esborso di oltre due miliardi di euro (per gli anni 2015-2018; sarebbero invece 3,6 aggiungendo gli anni 2019-2020). Le aziende che negli anni hanno partecipato a gare regionali in cui sono stati definiti prezzi e quantità, dopo quasi 10 anni si sono viste chiedere di contribuire al 50% dello sforamento della spesa regionale, con conseguenze drammatiche per un settore che conta in Italia 4.546 imprese e occupa 112.534 addetti.

Ai primi dell’anno 2023 le rappresentanze collegate a Confindustria Dispositivi Medici (DM) hanno contestato il meccanismo e il presidente di Confindustria DM, Massimiliano Boggetti, ha dichiarato che se le Regioni continueranno a bandire gare la cui somma dei valori aggiudicati supera il fondo sanitario a disposizione, e se il Governo non aumenterà le risorse destinate alla sanità, non saranno le imprese dei dispositivi medici a potersi far carico degli sforamenti di spesa pubblica.

Il 10 gennaio è arrivata una boccata di ossigeno per le aziende del settore, ma si è tradotto solo in un rinvio: con un decreto legge il Consiglio dei ministri ha infatti disposto che le aziende fornitrici di dispositivi medici dovranno adempiere all’obbligo di ripiano del superamento del tetto di spesa posto a loro carico per gli anni 2015, 2016, 2017 e 2018, effettuando i versamenti in favore delle singole regioni e province, entro il 30 aprile 2023 invece che entro il 31 gennaio come originariamente previsto.

Ma il problema appunto resta. Secondo Fifo Sanità, la federazione italiana fornitori ospedalieri aderente a Confcommercio-Imprese per l’Italia, se la norma del payback resterà in vigore, porterà al rischio concreto di un’imminente mancanza di dispositivi medici negli ospedali e comprometterà l’intera tenuta del settore. Fifo ha quindi stimato lo sforamento della spesa sanitaria e relativo payback da parte delle aziende, per gli anni dal 2015 al 2020 e le cifre sono impressionanti. Solo per fare un esempio: nel 2015 il tetto di spesa doveva essere 4,8 miliardi di euro, ma è salito di circa un miliardo arrivando a una spesa effettiva di 5,7 miliardi di euro. Di questo miliardo in più, circa la metà (416 milioni) dovrà essere coperta dalle imprese sanitarie. Venendo invece al 2020, anno del Covid, il tetto di spesa era fissato a 5,2 miliardi di euro, salito a 6,8 miliardi. A carico delle aziende quindi ci sarebbero dunque 821 milioni di euro da pagare.

Come Federazione che rappresenta le piccole e medie imprese della Sanità – ha dichiarato il presidente di Fifo, Massimo Riem sul sito di confcommercio.it – siamo assolutamente d’accordo a perseguire una spesa pubblica razionale e oculata. Ma questo obiettivo non può passare per una deresponsabilizzazione degli amministratori e un tracollo del tessuto delle pmi italiane. Con l’attuazione del payback centinaia di aziende saranno costrette a chiudere, con la conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro. Le imprese non saranno più in grado di fornire dispositivi medici, a presto ci troveremo davanti a una crisi senza precedenti da un punto di vista economico e sanitario”. “Chiediamo la cancellazione di questa norma – ha concluso Riem – che è inapplicabile e chiediamo l’apertura di un tavolo di discussione con il governo“.