Da poco è nata Argea, “Ar” come arte e “Gea” come terra, uno dei principali player italiani del vino: 6 sedi produttive in 4 regioni, ricavi consolidati per circa 420 milioni di euro nel 2021, un piano di investimenti da 50 milioni, export in 85 Paesi per il 95% del fatturato. E oggi, in occasione della Milano Wine Week, Argea ha organizzato Habitat, una tavola rotonda che riunisce i più autorevoli esponenti dei temi della sostenibilità e dell’ESG, per tracciare un manifesto per il settore vitivinicolo. Enrico Gobino è il direttore marketing di questo polo del vino, nato sotto la regia del fondo Clessidra.
Gobino, vino e sostenibilità: si può fare? Il boom dell’export richiede sempre più bottiglie prodotte. E la concorrenza globale aumenta. Come si può coniugare una produzione rispettosa dell’ambiente, nonostante i cambiamenti climatici, e una competitività economica nei confronti di agguerriti player internazionali?
“La componente vitivinicola va vista in un contesto più ampio. A volte si tende a relegare la sostenibilità a una delle sue componenti, ovvero quella ambientale. Ma sostenibilità vuol dire sostegno alla filiera, alla comunità locale, al banale rispetto delle regole. Pensiamo all’impatto che ha la filiera vigneto in Italia nel mondo. Sicuramente il packaging influisce sull’aspetto ambientale del vino. Questo deve portarci a focalizzarci sulla qualità intrinseca del prodotto e dobbiamo imparare a diventare più innovativi. Faccio un esempio: nei mercati scandinavi da più di 20 anni il vino viene venduto in bag-in-box, che ha attributi ed efficienze distributive importanti, perchè una ‘sacca-scatola’ da 3 litri contiene 4 bottiglie… risparmio spazio. Alcuni mercati ci stanno insegnando a investire in un nuovo packaging, vogliono il nostro vino di qualità ma vogliono inquinare meno”.
In quali mercati può aumentare ulteriormente la capacità esportatrice vostra e in generale dell’Italia?
“Abbiamo una serie mercati focus, soprattutto Nord America e Centro Europa. E poi ci sono i mercati del Far East, meno grandi dimensionalmente rispetto ai primi due blocchi. Però l’Asia è un’area dove l’Italia può ancora giocarsi una partita importante”.
Il forum di domani si chiama Habitat: sposare turismo e vino è la risposta vincente per conquistare i consumatori, attraverso il racconto e la tutela del territorio?
“L’enoturismo è un asset fondamentale per la valorizzazione vino italiano: avvicina il consumo al luogo di produzione e poi crea engagement, coinvolgimento, col territorio. Quanto io turista rimango coinvolto, questa emozione dura nel tempo, un’esperienza che diffonderò diventando ambasciatore volontario di un sistema che crea valore duraturo. Il vero tema è che abbiamo un problema di offerta più di che domanda”.
Il mercato del futuro è rappresentato dai giovani di oggi. Come vogliono il vino? Il messaggio sostenibile potrebbe avvicinarli a questo mondo? Anche in termini lavorativi?
“Non è che i giovani non siano interessati al vino, i giovani non sono interessati agli argomenti che raccontiamo ai loro genitori. Hanno bisogno di stimoli diversi e di sicuro, essendo più aperti, preferiranno vini sostenibili”.
Il vino bio continua a conquistare fette di mercato. Quali prospettive vede e quali sfide, anche tecnico-tecnologiche, comporta questa nuova tendenza?
“L’aspetto tecnologico conta per saper produrre con minore impiego di risorse. Oggi, le produzioni sostenibili vedono sicuramente il vino biologico come elemento fondamentale ma ci sono anche produzioni, come il bio-simbiotico, che sono ulteriori tecniche che vanno in questa direzione. Poi certo, a livello tecnologico, ci sono l’agricoltura di precisione e le analisi predittive fatte sul campo che possono facilitare produzione, sempre tenendo presente l’obiettivo iniziale: produrre con minore impiego di risorse”.
In Europa ci sono movimenti che vorrebbero parificare il tabacco al vino. Il messaggio sostenibile può essere la chiave per eliminare questa falsa rappresentazione della realtà?
“Diciamo subito che sostenibilità non può servire per ripulirsi la coscienza, ma è un elemento imprescindibile. Però è un rischio enorme il fatto che il vino venga destrutturato a una mera sostanza idroalcolica contenente alcuni gradi di alcol. C’è una sorta di strumentalizzazione di questo approccio quasi meccanico. Non si può infatti dire che l’alcool fa male e basta, si ignorano gli aspetti culturali e sociali… Non mi addentro in una diatriba di carattere sanitaria, ci sono varie scuole di pensiero, però andiamoci piano con certi paragoni, altrimenti buttiamo il bambino oltre all’acqua sporca. Noi dobbiamo lavorare per evitare la demonizzazione del vino che ha avuto e ha un grande impatto socio-economico ma soprattutto culturale”.
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