“Lo stop del gas a basso costo venduto dalla Russia non è certo il più grande problema. La Germania è un Paese malato, in una situazione peggiore di vent’anni fa”. Così Alexander Kritikos, docente di Economia all’Università di Potsdam e membro del comitato esecutivo del Diw (Istituto economico tedesco). In un colloquio con La Stampa spiega: “Il Paese è di nuovo malato, ma si può dire che questa volta la crisi è molto più sostanziale che nel 2003, quando si fece una riforma del mercato del lavoro e si era ricominciato a crescere. Ora, servono riforme più drastiche. Non so neanche se i politici sono pronti a queste ricette”. E ancora: “Bisogna tornare indietro di 15 anni, dopo la crisi finanziaria. Allora la Germania affrontava un grande boom economico rispetto al valore della sua industria. Aveva acceso il motore dell’export e tutto andava benissimo. Poi, sono successe due cose”. La prima: “Una regolazione europea che è capitata addosso alle aziende, sono arrivate 14 mila nuove norme, soprattutto negli ultimi 5 anni, con una burocrazia eccessiva, fatta male e spesso anche messa in pratica male dai tecnici, che è diventata un peso molto importante da sostenere. Questo ha inciso sui costi di produzione, e ha portato a delocalizzare: nell’Est Europa, in Svizzera, in Cina, in Polonia, in Romania o negli Stati Uniti. Subito non si chiude la casa madre in Germania, ma pian piano sì”. La seconda: “Negli ultimi 5 anni siamo arrivati ad una situazione insostenibile per quanto riguarda il reperimento della forza lavoro specializzata. C’è un grande problema demografico, il saldo tra chi entra nel mercato e chi va in pensione è di 300-400 mila persone. Negli ultimi tempi, la migrazione non ha colmato il gap. In questo momento, mancano 1 milione di persone, di lavoratori”.
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