A causa della siccità scatta la corsa a nuovi pozzi

Se dall’alto l’acqua non cade, gli agricoltori, con il benestare degli amministratori, se la vanno a cercare nelle falde sotto terra. In alcune zone del Paese, come il Cremonese o il Piemonte, infatti, si è pronti a dare il via libera alla realizzazione di pozzi per uso temporaneo di acqua per irrigare i campi. La Provincia di Cremona due giorni fa ha rilasciato le licenze d’uso. “Appartengono a questa categoria – si legge nel documento – i pozzi destinati ad essere utilizzati per un periodo non superiore ad un anno, per i quali deve essere rilasciata da parte della Provincia di Cremona una licenza d’uso che comporta il pagamento di un canone annuo“. Al termine del periodo autorizzato, però, questi pozzi devono essere chiusi. Per quelli ad uso irriguo legati alla crisi idrica, la licenza verrà rilasciata con scadenza al 31 dicembre 2022. La Provincia ricorda che “per sua natura, la licenza può essere revocata in ogni momento per motivi di pubblico interesse, senza che il titolare abbia diritto a compensi o indennizzi“. La licenza viene rilasciata purché la portata dell’acqua attinta non superi i 40 litri al secondo, il volume complessivo annuo prelevato non sia superiore ai 300.000 metri cubi e non siano alterate le condizioni della risorsa.

Nella lettera inviata nei giorni scorsi al presidente del Consiglio Mario Draghi e al capo del Dipartimento della Protezione Civile Fabrizio Curcio per richiedere il riconoscimento dello stato di emergenza per la siccità, il presidente del Piemonte, Alberto Cirio spiegava invece che “il Piemonte si trova ad affrontare una crisi idrica mai vista prima che certamente affonda le sue radici nei processi dei cambiamenti climatici”. I fondi richiesti ammontano a 800.000 euro per i costi già sostenuti per le autobotti, circa 8 milioni per interventi di somma urgenza realizzabili nel breve periodo (che riguardano le interconnessioni di rete, la sostituzione o il potenziamento di pompe, opere di progettazione per il potenziamento di sorgenti o di sostituzione della rete idrica, il ripristino di pozzi già esistenti e abbandonati, ovvero opere che servono per evitare il picco di criticità dei mesi estivi) e 112 milioni per opere strutturali urgenti da realizzare nel medio periodo. “Si tratta di nuove opere – aveva spiegato l’assessore Matteo Marnati, coordinatore delle attività del tavolo per l’emergenza idrica – quali ad esempio il potenziamento di acquedotti, la realizzazione di nuovi pozzi e nuovi serbatoi, nuove condotte per migliorare la qualità dell’acqua, la sostituzione di brevi tratti di reti acquedottistiche, e molto altro, da realizzare nell’arco di circa un paio d’anni. Abbiamo chiara la situazione dei progetti da realizzare per affrontare le siccità dei prossimi anni per quanto riguarda l’acqua potabile destinata alla popolazione”.

Secondo gli ultimi dati Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) in Italia, nel 2018, sono stati prelevati più di 9,2 miliardi di metri cubi di acqua per uso potabile, di cui in media circa l’85% deriva dalle acque di falda. Per quanto riguarda l’origine delle acque utilizzate, quasi i tre quarti derivano da laghi e fiumi ed un quarto da risorse sotterranee. Per la destinazione d’uso delle risorse idriche a livello nazionale, il settore agricolo utilizza il 60% dell’intera richiesta di acqua, il settore energetico e industriale il 25% e gli usi civili il 15%.

Ma andare a prelevare ulteriore acqua sotto terra per irrigare i campi, è la soluzione migliore? GEA ne ha parlato con Antonello Pasini, climate change scientist e ricercatore presso il Cnr. “In questo caso si tratta di acqua fossile – spiega – e sicuramente è una soluzione tampone, l’importante è che non si vada a depauperare una fonte così preziosa. Prelevare ulteriore acqua dal sottosuolo potrebbe aggravare la situazione idrica e impoverire il patrimonio di cui disponiamo“.

Dal momento che non piove da mesi, anche il livello delle acque di falda è ai minimi, considerato che si alimenta con la pioggia. “Agricoltori e amministratori dunque – dice Pasini – non devono puntare tutto su questa soluzione, che deve restare limitata nel tempo. Per arginare il problema della siccità servono interventi strutturali e duraturi nel tempo, come la realizzazione di nuovi invasi in cui raccogliere l’acqua e il miglioramento della rete idrica italiana“. È noto infatti che circa il 40% dell’acqua che scorre nelle tubature della rete idrica italiana va perduto a causa di malfunzionamenti, sprechi o rotture.

È innegabile dunque che le acque sotterranee rappresentino un ‘tesoretto’ idrico, ma vanno preservate e tutelate. La Direttiva Quadro Acque dell’Ue (2000/60), ricorda Legambiente, impone agli Stati membri, entro il 2027, il conseguimento del buono stato qualitativo e quantitativo dei corpi idrici. I dati Ispra mostrano però una situazione ancora di forte ritardo in Italia: da un punto di vista quantitativo, solo il 75% dei corpi idrici sotterranei risulta classificato e di questi solo il 61% risulta in uno stato chimico ‘buono’, il 14% ‘scarso’ e il 25% ancora non classificato (261 corpi idrici sui 1.052 totali). Simile lo stato qualitativo che vede l’83% delle acque sotterranee classificate, di cui il 58% è in stato ‘buono’, 25% scarso e 18% non ancora classificato.

Giulia Proietto Billorello

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