Il greenwashing spaventa anche gli investitori. La comunicazione ingannevole sui reali obiettivi di una società o un fondo possono creare non soltanto un danno di immagine all’intero settore degli investimenti green ma può anche essere fuorviante per chi decide di investire i propri soldi in asset che seguono i criteri Esg. Negli ultimi anni abbiamo visto un boom di investimenti marchiati come green. In particolare in Europa, le strategie di investimento che includono tra i loro obiettivi il rispetto dell’ambiente hanno rappresentato quasi la metà dei nuovi lanci. Alla fine del 2021, secondo Morningstar, i fondi in linea con l’articolo 9 dell’Agenda 2030 hanno dominato il panorama europeo per il clima, con 208 miliardi di dollari di asset (quasi il 64%). I fondi che rispettano l’articolo 8 rappresentano 52 miliardi di dollari, ovvero il 16% dell’universo. Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni, nell’intervista parla di come il greenwashing crei falsi miti e delusioni tra chi investe sul green.
Cosa pensa del fenomeno del greenwashing?
“Il greenwashing rappresenta, in principio, una forma di comunicazione ingannevole e quindi va contrastato. La questione è però più complicata di quello che sembra: non sempre è ovvio cosa è verde e cosa no. Per esempio: se un’azienda di trasporto sostituisce la metà dei suoi camion con veicoli elettrici (a zero emissioni) è più o meno verde di un’azienda che sostituisce la sua intera flotta con veicoli a emissioni basse (ma non nulle)? I singoli autocarri possono avere emissioni inferiori, ma nel complesso la sostituzione dell’intera flotta abbatte maggiormente le emissioni complessive. Quello che voglio dire è che la questione, pur molto chiara in astratto, può diventare estremamente complessa in concreto”.
Quanto può essere dannoso in termini di erosione di risorse dal settore?
“È chiaro che informazioni fuorvianti in relazione alla effettiva qualità ambientale dei prodotti possono distorcere la concorrenza, sia nell’accesso al credito, sia nella vendita dei prodotti. È difficile quantificare questo fenomeno proprio perché è difficile definire in modo netto quali siano le caratteristiche di un prodotto sostenibile. Una regolamentazione continuamente in evoluzione e spesso contraddittoria non aiuta”.
Il tema del greenwashing è strettamente connesso alla mancanza di indicatori precisi per valutare la sostenibilità di un’azienda/attività. A che punto siamo su questo fronte?
“Questo è esattamente il punto della questione. Va detto però che i tentativi di produrre metriche condivise non hanno avuto grande successo, anche perché spesso sono diventati occasione di scontro politico ideologico: pensiamo alla tassonomia europea degli investimenti sostenibili. Da questo punto di vista è meglio affidarsi al mercato e lasciare che gli standard emergano dal basso, anziché pretendere di definirli dall’alto (e di dedurne implicazioni di policy) sulla base di ragionamenti in gran parte ideologici”.
Quali sono i criteri che dovrebbero guidare nella scelta di investimenti davvero green?
“La sostenibilità ambientale ha diverse dimensioni. Quella più nota è ovviamente quella relativa agli impatti climatici, ma l’impronta ambientale riguarda anche l’inquinamento locale, il paesaggio, e così via. In generale, penso che sia sbagliato concentrarsi sull’impatto assoluto di un certo processo (cioè quali conseguenze determina sull’ambiente): bisognerebbe dare più peso alla domanda se un certo processo o prodotto, rispetto alle alternative, rappresenta un miglioramento ambientale oppure no”.
La Bei, ad esempio, ha deciso di legare sempre di più i finanziamenti a indicatori di performance della sostenibilità come il taglio delle emissioni di CO2. Se si raggiungono determinati Kpi, vi è per l’azienda una riduzione del costo di finanziamento. La prima operazione di questo tipo, da 600 milioni di euro, Bei l’ha realizzata nel luglio dell’anno scorso con Enel. Può essere un buon incentivo?
“Certamente. Le condizioni per l’accesso al credito sono uno strumento cruciale per indirizzare gli investimenti. Con un caveat, però: la demonizzazione delle fonti fossili ha prodotto negli scorsi mesi un consistente fenomeno di disinvestimento, il quale è tra le cause della crisi attuale. Il 2021 è stato l’anno con meno scoperte di oil & gas negli ultimi 75. E della conseguente scarsità paghiamo un prezzo altissimo. Insomma, ancora una volta è importante concentrarsi sulle alternative concretamente disponibili, e non su indicatori astratti di impatto ambientale”.
Una ricerca del think-tank InfluenceMap ha rilevato che 72 su 130 fondi a tema climatico non erano in linea con gli obiettivi climatici di Parigi. Un fenomeno che ha incentivato la discussione su controlli più rigidi sui fondi di investimento che si dichiarano sostenibili. Come ci si può difendere da questa mancanza di trasparenza?
“Insisto sul punto precedente: cosa significa essere in linea con gli obiettivi? Gli obiettivi sono definiti a livello di Paese. Una interpretazione troppo rigida di questi principi, se traslati dal Paese alle singole imprese, può semplicemente indurre le imprese a cedere asset o a uscire dai listini quotati, col risultato di produrre un miglioramento solo apparente degli standard. Se un’impresa occidentale cede un giacimento petrolifero a un’azienda pubblica cinese, la prima migliora il suo rating ambientale ma dal punto di vista globale non è cambiato niente, se non che abbiamo perso trasparenza e probabilmente abbiamo esposto lo sfruttamento di quel giacimento a pratiche e standard inferiori dal punto di vista ambientale. Bisogna essere pragmatici e guardare ai risultati effettivi e indiretti delle nostre azioni, non solo a quelli superficiali e diretti”.
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