Se Meloni invoca un altro Green Deal innestato sul ‘buonsenso verde’

Che il Green deal sia quasi finito lo ha certificato – a parole e per adesso solo in parte con i fatti – Donald Trump qualche settimana fa, seguito nei fatti più che nelle parole dai leader dei grandi Paesi inquinatori del pianeta (India, Cina, Usa, Australia) che se ne infischiano dei cambiamenti climatici (se addirittura non li negano) e della decarbonizzazione per perseguire i loro interessi. Che il Green Deal, così come è stato interpretato fino adesso, ovvero come battaglia ideologica, sia inviso da tempo al Governo, e in primis a Giorgia Meloni, è una non notizia. Ma l’intervento in Senato e alla Camera della presidente del Consiglio prima di volare a Bruxelles, ha cancellato qualsiasi dubbio.

Meloni ha detto che così come è stata concepita dalla Commissione, la revisione della legge Clima europea non avrà il voto dell’Italia “a maggior ragione se non sarà accompagnata da un cambio di approccio”, là dove questo ‘cambio’ si innesta sul bisogno che “le rinnovabili debbano innestarsi in un sistema equilibrato e tecnologicamente attrezzato per contenere al massimo le emissioni”. Una posizione netta, com’è netta è stata quella presa nei confronti delle auto: l’elettrico non può e deve diventare una dittatura, dunque largo al biofuel anche dopo il 2035 la data del Giudizio universale sulla mobilità non più endotermica.

Insomma, la premier non l’ha toccata pianissimo, forse perché ha preso piena contezza delle difficoltà in cui versa la nostra industria e dell’ineludibile necessità di adeguare le politiche climatiche – giuste e sacrosante, ineludibili pure loro – alla competitività delle aziende. Gli industriali si sono fatti sentire forti e chiari e il loro messaggio, anzi il loro grido di allarme, è stato raccolto. E’ questione di buonsenso e di opportunità: riconsiderare le politiche verdi non deve significare abbandonarle ma rimodularle sugli sviluppi di esigenze che sono mutate radicalmente negli ultimi anni, a fronte di congiunture geopolitiche sfavorevoli e dell’epidemia di Covid.

E’ inevitabile che la posizione della presidenza del Consiglio e in particolare quella sulla legge Clima europea, sollevi perplessità e dubbi da chi ha una visione ‘pura’ della lotta all’effetto sera e per la decarbonizzazione. Il problema, forse, sta proprio qui: una necessità non deve diventare una crociata ideologica. In fondo, Frans Timmermans ha fatto più danni all’ambiente della sgasata di un Tir indiano.

Vittorio Oreggia

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