Appena sono calati i prezzi, l’Italia è tornata a utilizzare meno rinnovabili, anche per cause di forza maggiore sull’idroelettrico, e a puntare come prima sugli idrocarburi. Emerge questo dalla newsletter mensile del Gme riferita a ottobre, in particolare sul mercato elettrico. Sul fronte metano le quotazioni sui principali hub europei, lo scorso mese, hanno segnato il secondo calo consecutivo rispetto ai livelli massimi storici raggiunti ad agosto (oltre 300 euro per megawattora), attestandosi a 81,6 euro/MWh al PSV italiano e a quota 79,4 al TTF olandese, livelli che non vedevano da novembre 2021. Entrambe le quotazioni presentano un trend decrescente nell’intero mese, con una forte pendenza nei primi giorni, quando i valori sono passati da circa 160 euro/MWh a poco sopra i 100 euro/MWh. Questa discesa marcata dei prezzi del gas ha influito sul mix energetico italiano, dove è emersa una flessione mensile dei volumi delle fonti rinnovabili (7.600 GWh), compresse appunto da vendite idroelettriche su uno dei livelli più bassi degli ultimi anni, soprattutto al Nord, dalla forte contrazione dell’eolico e dal calo del solare, nonostante un clima mite superiore alla media del periodo. Più debole la riduzione delle vendite da fonti tradizionali, sottolinea il Gme, che interessa sia gli impianti a gas che quelli a carbone, questi ultimi al Sud e in Sardegna. Crescono invece le vendite degli altri impianti tradizionali, in particolare ad olio in Sicilia. In sintesi: scendono rispettivamente al 12,1% e al 6,3% le quote di mercato dell’idroelettrico e dell’eolico, mentre per la prima volta da aprile torna a superare il 50% quella del gas (51,3%) e, come non accadeva da fine 2018, torna in doppia cifra quella del carbone (10,1%). Erano nove anni che non si registrava una performance di crescita del carbone. Una dinamica rialzista amplificatasi ancora di più dallo scoppio della guerra e dalla riduzione dei volumi di gas provenienti dalla Russia. Secondo le stime del Fraunhofer Institute, infatti, nei primi dieci mesi del 2022, le centrali termoelettriche a carbone hanno prodotto il 68% in più di elettricità rispetto al corrispondente periodo 2021 (+122% sul 2020 e +20% sul 2019), con punte che a luglio hanno superato i 2 GWh. Va ricordato però che oltre per la sua economicità rispetto al gas, un maggior ricorso al carbone è stato deciso dal precedente governo come una delle opzioni percorribili per sostituire il metano che la Russia ha tolto dal mercato, tanto da prevederne nel Piano di Contenimento dei consumi, presentato a inizio settembre dal Mite, il massimo utilizzo possibile delle centrali. Secondo il Piano, 1,8 miliardi (su 8,2) dovrebbero essere i metri cubi di gas risparmiati grazie all’utilizzo dal 1° agosto 2022 al 31 marzo 2023 degli impianti a carbone e olio combustibile – ricorda il Gme -, a cui vanno sommati altri 290 milioni di metri cubi ottenibili dall’utilizzo degli impianti a bioliquidi, che però verrebbero fatti funzionare a gasolio. Per la crisi energetica l’Italia verrà dunque meno al target prefissato nella Strategia energetica nazionale del 2017 e nel PNIEC (Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima 2030) del 2019: il Paese si era infatti dato il 2025 come data per la graduale cessazione della produzione elettrica a carbone, con un primo significativo step al 2023. Invece è scattata la massimizzazione delle centrali a carbone Enel di Brindisi Sud, Fusina (2 gruppi su 4), Sulcis e Torrevaldaliganord, Fiumesanto di EP Produzione e Monfalcone di A2A per una potenza complessiva, immediatamente utilizzabile di 5.501 MW, più la centrale a olio combustibile di S. Filippo del Mela, gestita da A2A. L’alternativa al carbone comunque sembra esserci. Come rivelato da Terna a settembre le richieste di connessione alla rete di trasmissione nazionale di iniziative FER (rinnovabili) hanno raggiunto i 285 GW, oltre 4 volte il fabbisogno necessario per raggiungere il target definito dalle Direttive Europee al 2030, pari a circa 70 GW di nuova capacità da fonti rinnovabili in Italia rispetto al 2019.
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