L’Italia è tra i Paesi europei energeticamente più dipendenti dall’estero e dispone di una capacità nominale di importazione di circa 130 miliardi di metri cubi di gas all’anno (115 via gasdotto e circa 15 via nave). Tuttavia il livello di effettivo utilizzo delle infrastrutture di interconnessione è al 57% della loro capacità. Senza contare che l’Italia ha riserve comprese tra i 70 e i 90 miliardi di metri cubi anche se produce poco più di 3 miliardi di metri cubi di gas all’anno (4% dei consumi), con una diminuzione di circa 6 volte rispetto ai livelli di fine anni ’90 e il 2000. Sono solo alcuni dei dati presi in considerazione dallo studio di Cassa Depositi e Prestiti ‘Sicurezza energetica: quali prospettive oltre l’emergenza?’, che analizza la situazione italiana e individua le eventuali alternative percorribili per sostituire le importazioni di gas dalla Russia. Il documento conferma che l’Italia “principalmente a causa della scarsa dotazione di risorse naturali“, è tra i Paesi europei energeticamente più dipendenti delle importazioni: quasi tre quarti delle materie prime arrivano infatti da Paesi terzi (73% a fronte di una media Ue del 57%). Non sono dunque sorprendenti, in tal senso, le conseguenze della guerra in Ucraina. Secondo gli analisti di Cdp, “l’approvvigionamento italiano presenta una forte concentrazione in un numero limitato di Paesi caratterizzati da elevati profili di rischio geopolitico“.
Ma ci sono almeno tre vie percorribili per ridurre la dipendenza energetica, in special modo dalla Russia: pieno sfruttamento della capacità di stoccaggio nel brevissimo periodo, potenziamento della capacità di trasporto del gasdotto Tap, nuovi impianti per il gas naturale liquefatto per consentire una rimodulazione delle importazioni nel breve-medio periodo. A queste opzioni, spiega Cdp, “si aggiunge la necessità di accelerare la transizione verso un sistema più efficiente e meno dipendente dai combustibili fossili, puntando sulle energie rinnovabili”. Il legame di dipendenza energetica dall’estero si è creato infatti nel corso dei passati decenni, per questioni non meramente economiche. Lo studio sottolinea che “l’obiettivo di salvaguardia dell’ecosistema dai rischi ambientali e sismici ha portato l’Italia a rinunciare all’adozione delle tecnologie di fracking e in generale a ridurre drasticamente le aree di operatività“. Il risultato è che “dei 1.300 giacimenti presenti sul suolo nazionale, oggi poco più di 500 vengono coltivati con continuità” e inoltre “l’ammontare più significativo di riserve è localizzato nell’Adriatico settentrionale, dove è stato imposto il divieto di estrazione“.
Sta di fatto che in un orizzonte di lungo periodo “gli attuali equilibri energetici e geopolitici potrebbero cambiare e alcuni Paesi potrebbero passare da importatori netti di energia a esportatori“. L’Italia potrebbe infatti giocare un ruolo chiave. Anzi da protagonista, grazie al posizionamento strategico e alla valorizzazione di reti e porti. Senza mezzi termini, Cdp spiega che l’Italia “potrebbe candidarsi a diventare un hub di accesso al gas naturale e in futuro anche dell’idrogeno, facendo da ponte tra le due sponde del Mediterraneo e riacquisendo quella centralità che il posizionamento geografico e storico le hanno sempre assegnato“. Dopotutto, l’Italia vanta una rete infrastrutturale per il trasporto del gas naturale tra le più estese d’Europa. Oltre 32.500 chilometri di gasdotti (la quasi totalità della rete) sono gestiti da Snam. Gli approvvigionamenti sono assicurati – prosegue il documento – da cinque gasdotti “che trasportano il gas proveniente dalle principali aree di importazione (Russia, Nord Africa, Nord Europa e Asia Centrale) fino alla frontiera italiana in corrispondenza di sei punti di ingresso nella rete nazionale e tre terminali di rigassificazione”. L’interconnessione con l’estero è garantita dal gasdotto Tenp-Transitgas per il gas estratto nel Mare del Nord dai Paesi Bassi attraverso Germania e Svizzera fino al Passo di Gries, in Piemonte, per una capacità annua di circa 20 miliardi di metri cubi. A questo si aggiungono il Tag (40 miliardi), il Ttpc-Tmpc (34 miliardi), il Greenstream (10 miliardi), il Tap (8 miliardi), il terminale di rigassificazione di Panigaglia (3,5 miliardi), il terminale di rigassificazione offshore di Porto Viro (8 miliardi), il terminale galleggiante di Livorno (3,75 miliardi).
L’analisi di Cdp prevede dunque suggerimenti e possibili soluzioni, tenendo ben presente che “la prospettiva più efficace è quella di guardare alla sicurezza energetica in un’ottica integrata che consideri contemporaneamente l’esigenza di tutelare la continuità degli approvvigionamenti, presidiare e preservare le infrastrutture critiche di fornitura e sviluppare le fonti rinnovabili”. Tre le priorità, la prima delle quali prevede “il pieno sfruttamento della capacità di stoccaggio nel brevissimo periodo, arrivando ad una quota di riempimento dei siti pari al 90%, che consentirebbe di coprire circa il 20% dei consumi interni”. Lo studio spiega che “se dovessimo portare oggi lo stoccaggio al 90% delle nostre possibilità, dovremmo acquistare circa 120 terawattora di gas. Ipotizzando di applicare il prezzo che attualmente si utilizza sui mercati, si potrebbe immaginare un costo pari a 12 miliardi di euro“. La seconda leva individuata da Cdp è il “potenziamento della capacità di trasporto del Tap da 10 a 20 miliardi di metri cubi l’anno, equivalente quindi a circa due terzi del gas di importazione russa, e incremento dell’effettivo utilizzo dei metanodotti esistenti che trasportano il gas dal Nord Africa“. Nel documento viene rilevato come la “capacità di trasporto del Tap presso Meledugno è attesa salire a 10 miliardi di metri cubi l’anno già entro l’estate 2022 e il raddoppio della capacità potrebbe essere implementato nell’arco di 4 anni“. Infine, serve il “rafforzamento della capacità di rigassificazione, per consentire una rimodulazione delle importazioni di gas verso il Gnl nel breve-medio periodo. A tal fine – prosegue l’analisi – occorre da un lato portare a pieno regime l’impiego dei terminali esistenti, il cui utilizzo è pari a soltanto il 75% della loro capacità teorica, che coprirebbe circa il 20% del fabbisogno nazionale. Dall’altro, si può provvedere alla realizzazione di nuovi terminali di rigassificazione“. E a questo proposito Cdp ricorda che “il governo italiano ha incaricato i principali operatori del settore di individuare due navi Fsru (floating storage regasification unit) che possano fungere da terminali galleggianti con caratteristiche analoghe a quelle dell’Olt di Livorno. I terminali galleggianti rappresentano una soluzione più rapida, economica e a minor impatto rispetto alla costruzione di impianti onshore30: dal momento della concessione sono necessari, infatti, dai 12 ai 18 mesi per la loro attivazione (quando le navi siano già disponibili)“.
A queste tre possibili soluzioni ‘tecniche’, se ne deve aggiungere un’altra, più diplomatico-politica: “La gestione della crisi – si legge ancora nel documento -, per via dei livelli di interconnessione e interdipendenza tra Stati membri, impone in primo luogo un approccio comunitario alla sicurezza energetica. L’Ue nel suo complesso deve, infatti, trovare un’alternativa per i circa 150 miliardi di metri cubi di gas che nel 2021 ha importato dalla Russia (40% del consumo totale di gas)“.
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