This photograph taken on July 11, 2023 shows an aerial view of the touristically called "Tabernas desert", taken from Illar, near Almeria, as Spain is hit by ongoing droughts. Ongoing droughts and an over-exploitation of land for both agriculture and industry have stoked fears in Spain over the creeping spread of "sterile soil" which could devastate Europe's kitchen garden. (Photo by JORGE GUERRERO / AFP)
Suoli aridi, senza microrganismi, senza vita: in Spagna ripetute siccità e sovrasfruttamento industriale o agricolo fanno temere un’irreversibile progressione di “terre sterili“, capaci di trasformare l'”orto d’Europa” in un territorio inospitale. “La Spagna non diventerà un deserto, con dune come nel Sahara, è morfologicamente impossibile“, spiega Gabriel del Barrio, ricercatore presso la Stazione sperimentale delle zone aride (Eeza) ad Almeria, in Andalusia. Ma la desertificazione, segnata da un intenso “degrado del suolo”, non è meno “preoccupante”, insiste lo specialista della desertificazione.
Sul banco degli imputati: il riscaldamento globale, all’origine di un innalzamento delle temperature che favorisce l’evaporazione dell’acqua e il moltiplicarsi di incendi devastanti, ma anche e soprattutto l’attività umana – e in particolare l’agricoltura intensiva.
Nonostante il suo clima ultra-arido, la provincia di Almeria si è trasformata negli anni nell’orto d’Europa, sviluppando immense coltivazioni in serra: un’area conosciuta come il ‘mare di plastica’, da cui migliaia di tonnellate di pomodori, peperoni e cetrioli vengono prodotti sia d’inverno sia d’estate. Tuttavia, questi 40.000 ettari, irrigati grazie a una falda di diverse migliaia di anni, aggravano il problema “esaurendo le falde acquifere”, spiega Gabriel del Barrio.
Sebbene estremo, questo scenario non è un’eccezione in Spagna. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite per combattere la desertificazione, il 75% del territorio spagnolo è ora soggetto a un clima che può portare alla desertificazione. Il che lo rende il paese europeo più colpito da questo problema. “Questo ci pone in una situazione complessa, dove la combinazione di temperature estreme, siccità e altri fattori aggrava il rischio di erosione, perdita di qualità del suolo”, ha avvertito di recente la ministra per la Transizione ecologica, Teresa Ribera. Secondo il Consiglio superiore spagnolo per la ricerca scientifica (Csic), da cui dipende Eeza, il degrado attivo del suolo è triplicato negli ultimi dieci anni. Un fenomeno tanto più problematico in quanto spesso “irreversibile a misura d’uomo”, insiste.
Incapacità del suolo di trattenere acqua e materia organica, di sostenere colture e bestiame… Per la Spagna, che ha fatto dell’agricoltura un pilastro economico, con quasi 60 miliardi di euro di esportazioni all’anno, questa situazione è motivo di preoccupazione. “L‘erosione del suolo è oggi il problema principale per la maggior parte degli agricoltori in Spagna“, ha affermato l’Unione dei piccoli agricoltori (UPA), parlando di una situazione “grave” che potrebbe avere un “costo economico” significativo.
In Andalusia, questa situazione ha convinto alcuni a rimboccarsi le maniche. “Dobbiamo agire al nostro livello quando possibile” e non “cedere al destino“, esorta Juan Antonio Merlos, proprietario di una fattoria di mandorle di 100 ettari sulle alture di Velez-Blanco, a nord dell’Almería. Con un pugno di allevatori riuniti all’interno dell’associazione AlVelAl, ha avviato nuove pratiche, dette “rigenerative”, rilevando tre anni fa l’azienda agricola dei suoi genitori, ora convertita al biologico. Sperando di “fermare l’erosione” in corso nella regione. Tra queste pratiche: l’uso del letame al posto dei concimi chimici, l’abbandono dei pesticidi “che uccidono gli insetti”, un uso limitato dell’aratura “che danneggia il suolo” e l’uso di coperture vegetali costituite da cereali e leguminose per conservare l’umidità quando la cadono rare piogge.
Al di là di queste nuove pratiche, le associazioni ambientaliste invocano, da parte loro, un cambio di modello, con una riduzione delle superfici irrigate e l’utilizzo di colture a minore intensità idrica. “Dobbiamo adattare le nostre richieste alle risorse effettivamente disponibili“, insiste il WWF.
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