COP16, niente di fatto per il vertice Onu: nessun accordo sulla siccità

I negoziatori non sono riusciti a raggiungere un accordo sulla lotta alla siccità alla Conferenza delle Nazioni Unite sulla lotta alla desertificazione (COP16) in Arabia Saudita, spegnendo le speranze di un protocollo vincolante per combattere questo flagello. Le discussioni si sono concluse nelle prime ore di sabato mattina, con un giorno di ritardo rispetto al previsto, mentre le parti della Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione (UNCCD), che riunisce 196 Paesi e l’Unione Europea, cercavano di raggiungere un consenso. In vista dell’incontro, iniziato il 2 dicembre a Riyadh, il suo segretario esecutivo, Ibrahim Thiaw, aveva dichiarato di sperare nell’adozione di una “decisione coraggiosa che possa contribuire a invertire la tendenza del più diffuso e dirompente disastro ambientale: la siccità”. Ma “le parti hanno bisogno di più tempo per concordare il modo migliore di procedere”, ha dichiarato al termine dell’incontro. Nel comunicato stampa di sabato si legge che i Paesi hanno “compiuto progressi significativi nel porre le basi per un futuro regime globale di lotta alla siccità, che intendono completare alla COP17 in Mongolia nel 2026”. I negoziati di Riyadh arrivano dopo il parziale fallimento dei colloqui sulla biodiversità in Colombia, il fallimento di un accordo sull’inquinamento da plastica in Corea del Sud e un accordo deludente sul finanziamento del clima per i Paesi in via di sviluppo alla COP29 di Baku, in Azerbaigian.

La siccità, “alimentata dalla distruzione dell’ambiente da parte dell’uomo”, costa al mondo più di 300 miliardi di dollari ogni anno e si prevede che entro il 2050 colpirà il 75% della popolazione mondiale, secondo le Nazioni Unite. Secondo un delegato di un Paese africano, i rappresentanti del continente volevano un protocollo vincolante che richiedesse ai governi di elaborare piani per prepararsi e affrontare la siccità. “È la prima volta che vedo l’Africa così unita, con un forte fronte comune, sul protocollo sulla siccità”, ha dichiarato a condizione di anonimato. Altri due partecipanti alla COP16, che hanno richiesto l’anonimato, hanno dichiarato all’AFP che i Paesi sviluppati non sono favorevoli a tale protocollo, sostenendo invece la necessità di un “quadro”, che i Paesi africani considerano inadeguato.

Anche i gruppi indigeni hanno spinto per un protocollo che permettesse un migliore monitoraggio, sistemi di allerta precoce e piani di risposta più appropriati, ha dichiarato Praveena Sridhar, direttore scientifico di Save Soil Movement, una campagna globale sostenuta dalle agenzie delle Nazioni Unite. Ma l’assenza di un accordo alla COP16 “non deve ritardare i progressi”, ha aggiunto, sottolineando che i governi possono ancora stanziare “bilanci e sussidi per incoraggiare una gestione sostenibile del suolo e della terra”.

Prima dei negoziati a Riyadh, l’UNCCD aveva stimato che 1,5 miliardi di ettari di terra dovevano essere ripristinati entro la fine del decennio e che erano necessari investimenti globali per almeno 2,6 trilioni di dollari. La prima settimana della COP16 ha visto impegni per oltre 12 miliardi di dollari da parte di organismi come il Gruppo di coordinamento arabo, un gruppo di istituzioni nazionali e regionali, e il Partenariato globale di Riyadh per la resilienza alla siccità, che mira a mobilitare fondi pubblici e privati per aiutare i Paesi a rischio.

Dell’Acqua: “Acqua pubblica, ma costerà di più. Siccità Sicilia solo punta dell’iceberg”

La siccità è uno dei fenomeni che sta mettendo in ginocchio l’Italia. Manca in diverse parti d’Italia, ma allo stesso tempo c’è la parte infrastrutturale da rivedere, o addirittura da fare. Il governo si è affidato per questo a un commissario straordinario, Nicola Dell’Acqua, nomen omen, cui è stato affidato il compito di adottare ‘interventi urgenti connessi al fenomeno della scarsità idrica’. Ospite del #GeaTalk fa il punto sulla situazione in Italia, che non riguarda solo la Sicilia. Anzi, quella “è solo la punta dell’iceberg, l’Italia centromeridionale è tutta in fase di criticità abbastanza elevata”.

Anche martedì 10 dicembre ne ha discusso a Palazzo Chigi, dove il dossier resta sempre aperto. “La verità è che le infrastrutture idriche sono sotto stress, non le abbiamo manutenute e dunque abbiamo tanto lavoro da fare”, spiega. “In Sicilia c’è il quadro più drammatico, ma anche in provincia di Potenza, in Basilicata. La situazione è critica, grave, il cambiamento climatico sta mettendo a dura prova le infrastrutture del Paese”. Promuove l’azione del Mit, che “ha raccolto tutte le opere necessarie in Italia da finanziare e ha messo in campo un piano da quasi 1 miliardo di euro, da attuarsi immediatamente”.

Altro capitolo ‘caro’ è quello dei dissalatori, di cui non possiamo fare più a meno nonostante siano “molto costosi” a causa dei prezzi dell’energia, “ma ora non possiamo più scherzare perché l’acqua potabile non c’è più”. Inoltre, “bisogna creare governane diverse”, visto che “abbiamo un ottimo sistema idrico integrato, ma criticità a monte: vanno manutenuti i canali e anche le dighe”, di cui non ci siamo occupati “per 50-60 anni”.

Tutte opere necessarie, investimenti che comunque hanno un prezzo. Ragion per cui “penso che l’acqua debba costare di più anche in Italia”, avvisa Dell’Acqua, ricordando che in altri Paesi le cifre sono più alte: “5-6 euro a metro cubo, mentre da noi è 2 euro”. Investendo su tubi e rimodernamento della rete, però, alla lunga avremo “meno costi di gestione”. Sintetizzando il concetto, per il commissario “l’acqua è pubblica, ma non vuol dire che deve essere gratis, perché ha un costo”.

Infine, Dell’Acqua risponde anche alle domande sulle perdite: “Abbiamo una media dagli acquedotti ancora troppo elevata” che “va a macchia di leopardo, dal 15% al 70%”. Il commissario, comunque, vuole vedere il lato positivo: “Dal 2016 è in funzione il sistema idrico integrato, che riguarda l’uso civile potabile, con un gestore unico, un controllore e una tariffa. Da quando è partito questo sistema, dove è partito, abbiamo un calo delle perdite del 16% e un aumento degli investimenti che vanno dal doppio al triplo”. È questo il modello a cui punta, in tempi ragionevolmente rapidi. Prima che ne passi davvero troppa di acqua sotto i ponti.

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Cop16, Onu: “La siccità costa al mondo quasi 300 miliardi di euro all’anno”

La siccità costa al mondo quasi 300 miliardi di euro all’anno. E’ l’avvertimento lanciato dall’Onu durante la Cop16 sulla desertificazione, in un rapporto che chiede investimenti urgenti in soluzioni basate sulla natura come la riforestazione. Si prevede che la siccità, alimentata dai cambiamenti climatici e da una gestione non sostenibile delle risorse idriche e del suolo, colpirà il 75% della popolazione mondiale entro il 2050, si legge in un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato martedì e intitolato ‘The economics of drought: investing in nature-based solutions for drought resilience’. Il rapporto illustra come queste soluzioni basate sulla natura, come la “riforestazione” o la “gestione dei pascoli”, possano ridurre le perdite e aumentare i redditi agricoli, offrendo al contempo benefici climatici e ambientali.

Uno studio del 2020 pubblicato sulla rivista scientifica Global Change Biology ha concluso che “gli interventi basati sulla natura si rivelano il più delle volte altrettanto efficaci, o addirittura più efficaci” nel 59% dei casi, “rispetto ad altri interventi per combattere gli effetti del cambiamento climatico”.

L’anno 2024, che sarà quasi certamente il più caldo mai registrato sulla Terra, è stato segnato da diverse devastanti siccità nel Mediterraneo, in Ecuador, Brasile, Marocco, Namibia e Malawi, che hanno causato incendi e carenze idriche e alimentari. Il loro costo “va oltre le perdite agricole immediate, colpendo l’intera catena di approvvigionamento, riducendo il Prodotto interno lordo (PIL), incidendo sui mezzi di sussistenza e portando a problemi a lungo termine come la fame, la disoccupazione e la migrazione”, ha sottolineato Kaveh Madani, co-autore del rapporto e direttore dell’Istituto universitario delle Nazioni Unite per l’acqua, l’ambiente e la salute (UNU-INWEH).

Gestire la terra e le risorse idriche in modo sostenibile è essenziale per stimolare la crescita economica e rafforzare la resilienza delle comunità intrappolate in cicli di siccità”, ha dichiarato Andrea Meza, vice segretario esecutivo della Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione (UNCCD). La sua organizzazione sta guidando la Cop16, che si terrà questa settimana a Riyad, in Arabia Saudita. “In un momento in cui si sta discutendo di una decisione storica sulla siccità, il rapporto invita i leader mondiali a riconoscere i costi eccessivi ed evitabili della siccità e a utilizzare soluzioni proattive e basate sulla natura per garantire lo sviluppo umano entro i limiti del pianeta”, ha spiegato.

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Ore di lavoro perse costano all’Italia 4,4 miliardi all’anno: il prezzo nascosto del riscaldamento globale

Non solo ambiente e non solo salute. Il riscaldamento globale ha un prezzo, o meglio, un costo nascosto che danneggia l’economia. Nel 2023 in Italia è stata pari a 4,4 miliardi di dollari la perdita potenziale di reddito dovuta alla riduzione della capacità lavorativa a causa del caldo. Lo rivela il rapporto annuale ‘The Lancet Countdown on Health and Climate Change’, che fa il punto sull’evoluzione dei legami tra salute e cambiamenti climatici attraverso oltre 50 indicatori peer-reviewed. “L’esposizione al calore – si legge nel documento – limita la produttività del lavoro, compromettendo i mezzi di sussistenza e i determinanti sociali della salute”. Inoltre, nel nostro Paese oltre 250 milioni di ore di lavoro potenziali sono state perse a causa dell’esposizione al caldo nel 2023, con un aumento del 90% rispetto alla media annuale del periodo 1990-1999. I lavoratori del settore edile sono stati i più colpiti, con il 38% delle ore potenziali perse e il 36% delle perdite di reddito potenziali nel 2023.  A livello globale, le perdite economiche medie annue dovute a eventi estremi legati al clima sono aumentate del 23% dal 2010-2014 al 2019-2023, raggiungendo i 227 miliardi di dollari.

Nell’analisi globale, il nostro Paese è uno di quelli più a rischio su ogni fronte. Basti pensare che la mortalità prematura dovuta all’inquinamento atmosferico di origine antropica è costata all’Italia 145 miliardi di dollari nel 2021. Mortalità che, in cifre, fa impallidire: tra il 2013 e il 2022 l’aumento medio complessivo dei decessi dovuti al caldo in Italia è stato stimato in 30 per 100.000 abitanti, passando da circa 129 nel 2003-12 a 159 nel 2013-22. Secondo uno studio dell’Istituto di Barcellona per la salute globale (ISGlobal), nel 2022 l‘Italia, tra i Paesi europei, detiene il record di vittime: delle 18.758 causate dal caldo, 13.318, cioè il 71%, sono state dovute al riscaldamento antropico. Nella classifica il nostro paese è seguito da Spagna, Germania, Francia e Grecia.

Nel nostro Paese, si legge nel rapporto di The Lancet, “le tendenze in materia di calore e salute sono particolarmente preoccupanti, con le popolazioni che sperimentano un aumento dell’esposizione alle alte temperature, compromettendo i mezzi di sussistenza e minacciando la salute e il benessere delle persone”. Dal 2014 al 2023, ogni neonato e adulto italiano di età superiore ai 65 anni è stato esposto in media a 18 giorni di ondate di calore all’anno. Solo nel 2023, gli stessi gruppi sono stati esposti a oltre 26 giorni di ondate di calore all’anno.

Siccità, Balla: In Marocco progetti importanti, da autostrada acqua a desalinizzazione

“La siccità è un problema comune a tutti, il cambiamento climatico e quindi lo stress idrico. Il Marocco ha avviato grandi piani per fare fronte a questa situazione. Certamente la gestione dell’acqua, una gestione razionale delle risorse, ma anche piani di infrastrutture. Il primo è l’autostrada e l’acqua, che permette il trasferimento dell’acqua da una zona all’altra ed è già operativa, la prima autostrada è di 580 km e permetterà trasferire una quantità di 580 milioni e metri cubi. Ma il Marocco ha anche avviato un piano per la desalinizzazione del mare. Sono in programma 20 centrali di desalinizzazione del mare, uno è la centralina di Casablanca, è i lavori sono già avviati, è la più grande centrale in Africa per la desalinizzazione dell’acqua. Queste centrali saranno la base per la produzione dell’idrogeno verde, perché tutte funzioneranno grazie alle energie rinnovabili”. Lo ha detto a Gea l’ambasciatore del Marocco in Italia, Youssef Balla, che ha ospitato presso la sua residenza l’evento organizzato da Fondazione Articolo 49 ‘Nuove energie tra Europa e Africa’.

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Italia ad alto rischio siccità: in Sardegna e in Sicilia è allarme rosso

Il cambiamento climatico ha aumentato la probabilità di siccità estrema in Sardegna e Sicilia del 50%. Lo rivela uno studio di World Weather Attribution, una collaborazione internazionale che analizza e comunica la possibile influenza dei cambiamenti climatici sugli eventi meteorologici estremi, come tempeste, precipitazioni estreme, ondate di calore e siccità. Secondo i ricercatori, i cambiamenti climatici causati dall’uomo hanno aumentato la probabilità che la siccità provochi carenze idriche e perdite agricole devastanti, pari a circa il 50%, nelle isole maggiori e situazioni simili “peggioreranno con ogni frazione di grado di riscaldamento in più, evidenziando l’urgente necessità di ridurre le emissioni a zero”.

“La Sardegna e la Sicilia – dice Mariam Zachariah, ricercatrice presso il Grantham Institute – Climate Change and the Environment, dell’ Imperial College di Londra – stanno diventando sempre più aride a causa dei cambiamenti climatici. Il caldo torrido e prolungato colpisce le isole con maggiore frequenza, facendo evaporare l’acqua dai terreni, dalle piante e dai bacini idrici. Per gli agricoltori e le città che hanno sopportato mesi di restrizioni idriche, questo studio è una conferma: il cambiamento climatico sta intensificando la siccità”.

Per il Wwf, questo scenario “conferma la necessità di rimuovere molto rapidamente le cause del riscaldamento globale, in particolare l’uso dei combustibili fossili. In questo, i Paesi a maggior rischio devono fungere da esempio e stimolo, come accade per le piccole isole del Pacifico. È anche urgente rendere operativo il Piano nazionale di Adattamento e darsi priorità d’azione e finanziamenti adeguati, altrimenti saremo condannati a far fronte di continuo a emergenze, con il rischio, già annunciato dal Ministro della Protezione Civile, che i cittadini non possano più godere di alcun aiuto in occasione di eventi estremi. È ormai reale il pericolo che il cambiamento climatico mini le basi stesse dell’economia e della competitività italiana, a cominciare dal turismo e dall’agricoltura”.

Lo studio di World Weather Attribution avverte che siccità simili peggioreranno con ogni frazione di grado di riscaldamento in più, evidenziando l’urgente necessità di ridurre le emissioni a zero. In base al sistema di classificazione del monitoraggio della siccità degli Stati Uniti, le siccità su entrambe le isole sono classificate come “estreme”. Tuttavia, in un mondo più freddo di 1,3°C, senza cambiamenti climatici causati principalmente dalla combustione di combustibili fossili, sarebbero state meno intense e classificate come siccità “gravi”, secondo l’analisi. Se il mondo raggiungerà i 2°C di riscaldamento, cosa che potrebbe accadere già nel 2050, le siccità in Sardegna e Sicilia diventeranno ancora più intense e frequenti.

Lo studio evidenzia, inoltre, come l’invecchiamento delle infrastrutture idriche stia aggravando la carenza d’acqua. Una gestione efficace dell’acqua contribuirà a ridurre l’impatto delle future siccità, in particolare quando l’afflusso estivo di turisti aggiungerà ulteriore pressione ai bacini idrici durante i mesi più secchi dell’anno, affermano i ricercatori.

Ecco perché, dice il Wwf, “a partire dalla prossima legge finanziaria, quindi, ci aspettiamo misure per finanziare un’economia a carbonio zero, capace di aiutare cittadini e imprese nel percorso della transizione energetica, insieme all’identificazione delle misure prioritarie e dei finanziamenti per attuare un serio piano di adattamento”.

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Siccità al centro del Med Cyprus. Lollobrigida: Italia capofila Ue per strategia comune

Tra le conseguenze della crisi climatica, l’inasprimento della siccità è una delle più evidenti. E l’Italia è pienamente investita dal fenomeno, soprattutto in Sicilia e in Sardegna. In futuro, il problema non potrà che peggiorare, soprattutto nel Mediterraneo.

I ministri dell’agricoltura dei nove Paesi che si affacciano sul Mare Nostrum (Grecia, Spagna, Francia, Cipro, Malta, Slovenia, Portogallo, Croazia e Italia) si danno appuntamento a Cipro per condividere una strategia europea sul tema e individuare risorse finanziarie adeguate.

Un incontro, fa sapere Francesco Lollobrigida, “sollecitato” da Roma. Con i titolari dei dicasteri c’è il commissario europeo uscente, Janusz Wojciechowski. “Abbiamo condiviso il ‘Documento di Famagosta’, dove ribadiamo la nostra determinazione ad affrontare il problema della scarsità d’acqua e ad assicurare un futuro ai nostri agricoltori“, spiega il ministro italiano, rivendicando come il Governo Meloni sia “ancora una volta capofila in Europa a difesa dell’agricoltura”.

Il Masaf, assicura Lollobrigida, “sta lavorando come mai accaduto prima nei passati governi per tutelare gli agricoltori e fornire ascolto, risposte puntuali e centralità al settore agricolo“.
Parla di investimenti “mai visti prima” per sostenere le filiere in crisi e di una “svolta” impressa nella gestione delle emergenze che affliggono il settore, a partire da un rafforzamento del sistema dei controlli.

Il tema sarà sul tavolo del G7 Agricoltura e Pesca, che si terrà sull’isola di Ortigia a Siracusa, dal 26 e al 28 settembre. “Sottolineeremo l’importanza del sistema agroalimentare, zootecnico, dell’itticoltura e della pesca e la centralità che devono ricoprire – ribadisce Lollobrigida -. Un principio che dovrà diventare una priorità concreta per tutti i Paesi del G7 e non solo”.

In Italia 40 dissalatori, in Spagna 800. Tota: “Meno di un miliardo per placare la siccità”

Photo credits: profilo Linkedin Acciona

E’ allerta rossa per la siccità al Sud, tanto che in Sicilia l’acqua arriva con la marina militare. Fra i rimedi che ogni anno vengono tirati in ballo di fronte a queste emergenze – oltre alla creazione di invasi e alla ristrutturazione della rete idrica che perde circa il 50% dell’acqua – c’è anche la dissalazione. Secondo i dati della fondazione Utilitatis però in Italia le acque marine o salmastre rappresentano solo lo 0,1 % delle fonti di approvvigionamento idrico, contro il 3% della Grecia e il 7% della Spagna. Il Paese iberico è diventato negli anni punto di riferimento dei dissalatori. GEA ne ha parlato con Pietro Tota, Country manager per l’Italia della divisione ‘Agua’ di Acciona, il gruppo iberico leader mondiale nella dissalazione dell’acqua per osmosi inversa.

Tota, quanti dissalatori ci sono effettivamente in Italia?

“L’Italia ha da alcuni anni dissalatori ma molto piccoli, che non potremmo nemmeno chiamare dissalatori veri e propri. Si tratta solo di tentativi per risolvere problematiche legate a contingenze, che utilizzano o utilizzavano tecnologie vecchie, obsolete e molto energivore. Ad oggi ci sono tra Puglia, Toscana, Sardegna, Lazio e e Sicilia circa 40 impianti di dissalazione, di questi 40 l’acqua dissalata prodotta viene utilizzata per scopi industriali nel 71% dei casi, in agricoltura non viene usata, mentre la quota restante serve per usi potabili. Mediamente la capacità produttiva di questi impianti è sotto i 2000 metri cubi (mc) al giorno, molto piccoli dunque. Fanno eccezione alcuni impianti di recente realizzazione come quello di Saras, realizzato da Acciona a Cagliari che produce circa 12 mila metri cubi al giorno per usi industriali”.

Com’è invece la situazione in Spagna?

“In Spagna ci sono in totale quasi 800 impianti di dissalazione e circa 100 sono su larga scala come quello di Torrevieja–Alicante, realizzato da Acciona, che produce 240.000 metri cubi al giorno (attualmente il più grande d’Europa). In Spagna sono 30 anni che fanno dissalazione. I dissalatori in Spagna producono 5 milioni di metri cubi al giorno, in Italia invece la produzione massima è 17 milioni di metri cubi all’anno”.

Nel resto del mondo a che punto è la dissalazione?

“In Arabia Saudita quasi metà di acqua potabile è prodotta da impianti di dissalazione. E’ vero che là è una necessità per la scarsità dell’acqua. E’ vero anche però che in questi Paesi mediorientali, compreso Israele, hanno le raffinerie per cui l’energia elettrica per questi impianti non è un problema. E’ in generale un discorso sistemico loro hanno puntato, come l’Australia, sulla dissalazione come fonte di approvvigionamento idrico”.

Anche il governo italiano lo scorso anno ha deciso di accelerare sulla dissalazione, no?

“Certo, sono stati fatti vari tavoli di regia e si è creata una cabina di regia, si sono nominate commissioni, ma riteniamo che bisogna far entrare le utilities che costruiscono e gestiscono impianti di dissalazione nel mondo in queste cabine di regie. I gestori della risorsa idrica, penso ad Utilitalia, devono essere coinvolti. A questi tavoli ci sono invece politici, protezione civile, enti universitari che alla fine non sono poi operativi. I gestori invece sanno le necessità e le disponibilità, vanno coinvolti. Tutto ciò tuttavia non sta avvenendo”

Siete stati contattati in queste settimane?

“Con l’emergenza idrica in Sicilia ci hanno chiamato per rimettere in funzione i dissalatori di Porto Empedocle, Trapani e Agrigento. Ma come si è conclusa la vicenda? Hanno puntato sulle autobotti e trasporto con le navi cisterna che prendono acqua da fonti di approvvigionamento idrico di acqua potabile per trasferirle dove c’è necessità e rimandando la questione dissalazione a progetti futuri.

E’ una questione di costi?

“Guardi, prendiamo l’esempio delle isole Pelagie: a Lampedusa abbiamo realizzato mini dissalatori 10 anni anni fa e la tariffa di acqua pagata è scesa da 17 euro /mc (del trasporto con navi cisterna) a circa 3 euro/mc”.

Costi energetici?

“Attualmente i dissalatori sono una tecnologia estremamente matura. Pe dissalare un metro cubo di acqua si impiegano meno di 3 kw. Se consideriamo che un kw costa circa 20 centesimi, parliamo dunque di 60 centesimi. Il costo, compreso investimento e manutenzione, ormai è ben al di sotto dell’euro per metro cubo dell’acqua trattata. Sono dunque costi paradossalmente competitivi rispetto ad esempio all’uso delle bettoline”.

E allora cosa frena la dissalazione in Italia?

“Un discorso culturale… bisogna pensare alla dissalazione come fonte integrata nei sistemi idrici. La risorsa idrica di acqua dolce utilizziamola pure ma va anche preservata. A Barcellona ci sono tre potabilizzatori e due dissalatori sempre in funzione. E tutta l’acqua accumulata viene preservata”.

Restando nel Mediterraneo, come si comportano gli altri Paesi?

“La Grecia ha avuto un problema di fondi, tuttavia è più avanti dell’Italia. Cipro ormai è alimentata quasi al 100% dai dissalatori, a Malta ce ne sono tre”.

La siccità è un dramma soprattutto per l’agricoltura, in Spagna come viene usata l’acqua dissalata?

“A Torrevieja il 70% acqua prodotta viene usata per irrigazione, il 70% di 250mila metri cubi al giorno”.

Quanti dissalatori servirebbero in Italia per avvicinarsi alla Spagna?

“Circa 20 di medio-grandi dimensioni, soprattutto al Centro-Sud”.

Quanti soldi servirebbero? Il Pnrr ha aiutato o può aiutare?

“Con il Pnrr l’Acquedeotto pugliese farà un dissalatore, noi ne stiamo realizzando uno a Cefalù finanziato che genererà 40mila metri cubi al giorno, che non è proprio un dissalatore di acqua mare, bensì di acqua salmastra: prende l’acqua dalla sorgiva e la dissala. Il costo per Cefalù è di 35 milioni considerando anche le condotte di scarico e altre opere strutturali particolari. L’impianto in sé costa meno di 20 milioni”.

Con un miliardo di euro, insomma, si potrebbe risolvere il problema siccità in Italia?

“Forse anche meno, a patto di utilizzare lo strumento del project financing.”

Dai geni ai jeans: allo studio varietà di cotone resistenti alla siccità

Dalle morbide T-shirt ai comodi jeans fino alle accoglienti lenzuola. Il cotone è la principale fibra tessile rinnovabile del mondo e la spina dorsale di un’industria globale che vale miliardi. Con l’intensificarsi dei cambiamenti climatici, i coltivatori di cotone si trovano ad affrontare sfide crescenti dovute alla siccità e al caldo. Tuttavia, una nuova ricerca offre la speranza di sviluppare varietà più resistenti, in grado di mantenere rese elevate anche in condizioni di stress idrico.

Un team interdisciplinare di ricercatori ha esaminato il modo in cui le diverse piante di cotone rispondono alla siccità a livello genetico in uno studio recentemente pubblicato sul Plant Biotechnology Journal. Hanno coltivato 22 varietà di cotone di montagna (Gossypium hirsutum L.) nella regione del basso deserto dell’Arizona, sottoponendo metà delle piante a condizioni di scarsità idrica. Analizzando i geni e i tratti fisici delle piante, gli scienziati hanno scoperto alcune affascinanti intuizioni sui meccanismi di gestione della siccità del cotone.

Due geni regolatori chiave svolgono un ruolo cruciale nell’aiutare le piante di cotone a gestire lo stress idrico mantenendo la produzione di fibre. Questi geni agiscono come direttori d’orchestra, coordinando l’attività di centinaia di altri geni coinvolti nella risposta alla siccità e nello sviluppo della fibra.

“Sembra che nel corso del tempo le piante di cotone abbiano evoluto questo meccanismo di regolazione che le aiuta a far fronte alle condizioni di siccità, pur continuando a produrre le fibre che sono così importanti dal punto di vista economico”, spiega Andrew Nelson, professore assistente presso il Boyce Thompson Institute.

Poiché il cambiamento climatico porta a siccità più frequenti e gravi in molte regioni produttrici di cotone, è fondamentale sviluppare varietà che possano prosperare con meno acqua. Questa ricerca fornisce preziose indicazioni e obiettivi genetici per guidare gli sforzi di selezione. Inoltre, la gamma di risposte alla siccità osservate tra i 22 tipi esaminati sottolinea quanto sia cruciale la diversità genetica per adattare le colture a condizioni mutevoli.

“In un mondo che si trova ad affrontare sfide ambientali crescenti – dicono i ricercatori – capire come le nostre piante più importanti rispondono agli stress a livello molecolare è più che mai vitale. Questo studio fa progredire le nostre conoscenze scientifiche e apre la strada a un’agricoltura più resiliente e sostenibile di fronte ai cambiamenti climatici”.

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Siccità, allerta rossa al sud. In Sicilia l’acqua arriva con la marina militare

Via libera dalla Conferenza Stato-Regioni al riconoscimento per tutta la Sicilia delle “condizioni di forza maggiore e circostanze eccezionali” a causa della persistente siccità che da oltre un anno sta colpendo l’isola, una delle più gravi dell’ultimo cinquantennio. Un “dramma idrico” dice l’Anbi, che deve servire da “monito” per tutto il Paese. E l’allarme rosso scatta anche in Calabria, dove il presidente di Regione, Roberto Occhiuto ha dichiarato lo stato di emergenza.

Il provvedimento era stato richiesto dal governo regionale lo scorso 17 giugno: ora si attende la firma del decreto da parte del ministro della dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida. Il riconoscimento della condizione di forza maggiore e di circostanze eccezionali dal primo luglio 2023 a maggio 2024 consentirà alle imprese agricole e zootecniche che operano su tutto il territorio siciliano di usufruire di deroghe in alcuni ambiti della Politica agricola comune, che permetterebbero di non applicare determinati vincoli a pascoli e terreni, continuare a godere di aiuti, rinviare pagamenti, sanzioni e oneri.

Una decisione accolta favorevolmente dal governatore siciliano, Renato Schifani, che sottolinea come la regione sia stata posta nella stessa “zona rossa” di Marocco e Algeria. L’intesa raggiunta, dice, “dimostra la concreta attenzione e sensibilità del governo nazionale per una situazione che va affrontata in maniera corale da tutte le istituzioni, comprese quelle europee“.

La Regione ha già dichiarato lo stato di calamità naturale per danni all’agricoltura e ottenuto dal Consiglio dei ministri il riconoscimento dello stato di emergenza di rilievo nazionale. La nuova richiesta nasce da una situazione che si è aggravata nelle ultime settimane a causa della riduzione delle risorse idriche negli invasi e della conseguente indisponibilità di acqua per l’irrigazione. Per il comparto agricolo e zootecnico si stima una perdita della produzione nel 2024 che va da un minimo del 50% a un massimo del 75%. Una situazione che, per Coldiretti, è da “allerta rossa”.

Un’emergenza tale da rendere necessario l’intervento della marina militare. La nave cisterna Ticino, partita da Augusta, è arrivata a Licata con 1200 metri cubi che verranno immessi nella rete idrica in circa 25-30 ore per rifornire il comune, permettendo di ‘liberare’ risorse che verranno dirottate verso altri centri della zona colpiti dall’emergenza siccità. Intanto a Palermo è stata ridotta ulteriormente la pressione dell’acqua per consentire un maggior risparmio e salvaguardare la risorsa idrica degli invasi ed è entrata in azione la prima delle due pompe di sollevamento del lago Biviere di Lentini, nel Siracusano. L’impianto permette un prelievo di circa 400 litri al secondo che consentiranno di distribuire acqua per usi irrigui a circa mille ettari di terreni agricoli della Piana di Catania. Nei prossimi giorni, sarà attivata una seconda pompa con la stessa capacità.

Ci stiamo impegnando con tutte le nostre forze”, assicura Schifani che annuncia di aver pianificato e avviato “un vasto programma di interventi per rendere più efficiente il servizio idrico, opere che la Sicilia attende da troppo tempo e che incomprensibilmente non sono state avviate da chi ci ha preceduto”.
Un tema, quello della scarsità idrica, che va affrontato con “una strategia complessiva”, come ribadisce anche il vicepremier, Antonio Tajani, “non solo per quanto riguarda la siccità ma per il complessivo utilizzo dell’acqua”.