La pandemia ha lasciato segni importanti non solo nella memoria degli italiani, ma anche nelle loro abitudini quotidiane. L’arrivo del Covid, ad esempio, ha portato molti a rivedere la propria percezione del sistema sanitario o le proprie abitudini sociali. Abbiamo cercato di approfondire alcune di queste tematiche insieme a Marco Terraneo, professore di sociologia alla Bicocca di Milano e ricercatore nell’ambito della sociologia della salute.
Professore, la pandemia da Covid-19 ha messo a dura prova il settore sanitario pubblico in Italia. Come pensa sia mutata, negli ultimi anni, la fiducia degli italiani rispetto a questo comparto?
“Credo che il rapporto di fiducia con la sanità si sia modificato, ma non nella direzione che immaginiamo. Malgrado tutto, c’è ancora grande fiducia per il comparto in generale. A essere entrata in crisi, invece, è la credenza che la medicina – in quanto scienza – sia infallibile. Prima della pandemia, in pochi sapevano come funzionava il processo di sviluppo di un vaccino o la gestione di un contagio. Il metodo scientifico procede per prove ed errori e con la pandemia in molti ne hanno avuto un’esperienza diretta”.
La pandemia ha modificato in misura maggiore la relazione degli italiani col proprio medico di base o quella con strutture più grandi come ospedali, Ulss o Rsa?
“Il rapporto col medico curante resta buono e c’è fiducia, nonostante i limiti e le differenze territoriali. Anche servizi come il pronto soccorso, di fatto, vengono considerati soddisfacenti malgrado i tempi di attesa. Proprio le tempistiche, però, finiscono per incidere molto nella scelta tra strutture pubbliche e private: specie quando si tratta delle liste d’attesa per visite e operazioni. In questo senso, la disponibilità economica del paziente oggi fa la differenza. Una parte importante del Pnrr punta a rilanciare la sanità pubblica, ma il settore – come il resto dell’economia – è inserito in un contesto neoliberista, dove privatizzazione e iniziativa privata continuano a crescere. Anche guardando al mercato del lavoro, spesso un bravo medico non trova incentivi economici e di status che gli facciano preferire un ruolo nel pubblico”.
L’opinione pubblica si è spesso divisa sul tema della sicurezza dei vaccini. Rispetto a due anni fa, oggi gli italiani hanno una fiducia diversa nei confronti di farmaci e terapie mediche?
“È un fenomeno che si inserisce in un generale processo di medicalizzazione della società. Oggi la medicina mette al centro problematiche di cui in passato non si occupava. Un contesto in cui nascono farmaci per tutte le occasioni e non sempre le persone hanno gli elementi per comprenderne l’affidabilità. Se parliamo nel dettaglio dei vaccini anti-Covid, i dubbi ci sono stati tra la popolazione: non tanto sul vaccino in sé, ma su processi di sviluppo ed efficacia. Forse, durante la pandemia, è mancata la capacità di comunicare queste informazioni al grande pubblico. Detto ciò, esisteva già da anni un movimento no-vax. In generale, però, non credo che la fiducia complessiva rispetto a farmaci e case farmaceutiche sia mutata in maniera radicale”.
Per molte aziende, la pandemia è stata un’occasione per sdoganare lo smart working e favorire la digitalizzazione dei processi. Parallelamente, nel settore sanitario, la telemedicina non ha avuto per ora la stessa fortuna. Perché?
“La telemedicina ha sicuramente grandi margini di successo, ma ci vuole una riflessione su come realizzarla e sui limiti che può avere. Da una parte servono risorse, dall’altra la popolazione deve sapere come funziona. Per motivazioni cognitive, tecnologiche e anagrafiche, non tutti potranno avere accesso a questi strumenti. Serve un accompagnamento, in particolare, per gli anziani, che possono beneficiare del monitoraggio costante dei propri parametri o di consulti medici da remoto, solo per fare un paio di esempi”.
Il rischio di isolamento per anziani e giovanissimi resta un tema estremamente dibattuto, anche dopo il decadimento di distanziamento sociale e dad. Prevede conseguenze a lungo termine nella loro vita sociale?
“È importante distinguere tra categorie sociali. Giovani e adulti sembrano aver superato molti timori, anche a giudicare dalla quantità ridotta di mascherine che si vedono in giro. Gli anziani, al contrario, restano una categoria fragile e spesso le conseguenze del Covid sul loro organismo sono ancora molto gravi, nonostante i vaccini. Isolarsi resta la precauzione migliore, ma chiaramente comporta un alto rischio di isolamento. Anche in questo caso, la minore conoscenza della tecnologia fa la differenza. I più giovani utilizzano smartphone e computer per contattare gli amici, mentre gli anziani spesso si servono solo del telefono fisso. Non potersi incontrare al mercato o per un caffè, di conseguenza, ha un peso enorme sulla loro vita sociale”.
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