Tutelare il 44% della Terra per fermare crisi biodiversità

Le aree protette devono essere affiancate a politiche di pianificazione sostenibile dell’uso del suolo, al riconoscimento del ruolo guida delle popolazioni indigene, a meccanismi di trasferimento fiscale verso i paesi in via di sviluppo e ricchi di biodiversità, e al controllo delle attività industriali in aree importanti per la biodiversità“. Questo il commento (più che altro un appello a politica e stakeholders) di Moreno Di Marco, coordinatore del gruppo di ricerca ‘Biodiversity and Global Change’ dell’Università La Sapienza di Roma che ha partecipato allo studio internazionale per mappare, attraverso algoritmi geospaziali avanzati, l’area ottimale per la conservazione delle specie e degli ecosistemi terrestri di tutto il mondo. Lo studio, pubblicato su ‘Science‘, è stato coordinato da James R. Allan dell’Università di Amsterdam ed è nato dalla collaborazione della Sapienza con l’Università di Amsterdam, l’Università del Queensland, l’organizzazione ‘The Nature Conservancy’ (TNC), l’organizzazione United Nations Development Programme (Undp), l’Università di Cambridge, la BirdLife International, l’Università della Tasmania, la Rights and Resources Initiative (Rri), l’Università del Kent, l’Università di Melbourne e l’Università del Delaware.

I ricercatori hanno anche quantificato la superficie terrestre a rischio a causa delle attività umane di modifica degli habitat, sfruttando scenari di uso del suolo. Perché, per fermare la crisi globale della biodiversità, spiega il co-autore dello studio Di Marco, “sono necessari sforzi ambiziosi, in particolare è fondamentale proteggere le aree ad alto valore conservazionistico e forte rischio di declino“. Dai risultati di questa ricerca emerge che “per arrestare la crisi della biodiversità” sarebbe necessario conservare un’area di 64 milioni di kmq, ovvero il 44 % della superficie terrestre. Non solo: i modelli mostrano che più di 1.3 milioni di kmq di questa superficie terrestre – un’area più estesa del Sud Africa – rischiano di essere distrutti entro il 2030 dalle attività antropiche, con conseguenze devastanti per la fauna selvatica. “Considerando che 1,8 miliardi di persone vivono nelle zone identificate – spiega il team di ricerca romano – risultano fondamentali le azioni di conservazione che promuovono l’autonomia, l’autodeterminazione e la leadership ambientale di queste popolazioni. A tal fine, gli strumenti utili spaziano, in base al contesto locale, dalla responsabilizzazione delle popolazioni indigene, alle norme che limitano la deforestazione, alle aree protette“.

A oggi, questa ricerca rappresenta – spiega Di Marco del dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza – l’analisi più esaustiva delle esigenze di conservazione della biodiversità a scala globale e dimostra che l’espansione delle aree protette è una misura necessaria ma non sufficiente a invertire il declino della biodiversità”. Lo studio potrebbe dunque avere “implicazioni politiche, come sottolinea il ricercatore italiano, anche “alla luce del fatto che diversi paesi, sotto la guida Onu, stanno attualmente negoziando nuovi obiettivi di conservazione della natura“. Il riferimento è al piano d’azione post-2020 della Convenzione sulla Diversità Biologica (CDB), che entrerà in vigore nel corso dell’anno e che “stabilirà l’agenda della conservazione per il prossimo decennio e le nazioni dovranno riportare i risultati ottenuti rispetto ai nuovi obiettivi del 2030“. Nonostante l’impegno delle nazioni a conservare almeno il 17% della superficie terrestre attraverso aree protette, spiega Di Marco “dal 2020 è stato chiaro che ciò non sarebbe bastato ad arrestare il declino della biodiversità e scongiurarne la crisi, anche a causa del mancato raggiungimento di altri obiettivi“. Le soluzioni comunque ci sono, secondo il ricercatore della Sapienza: “La nostra analisi mostra che il rischio per la biodiversità derivante dalla perdita di habitat in aree importanti per la conservazione può ancora essere ridotto in modo significativo, addirittura di 7 volte, se si attuano politiche sostenibili di uso del territorio”.

Nadia Bisson

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