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L’Europa ha un potenziale problema nell’importazione di principi attivi per la produzione di medicinali

L’estate scorsa era capitato con lo sciroppo per bambini a base di ibuprofene. Introvabile nelle farmacie. Era il medicinale più consigliato contro i sintomi della variante Omicron – quindi richiestissimo – e per venire incontro al boom della domanda gli stessi farmacisti si erano dovuti attrezzare per preparare sul momento le formulazioni richieste. Quando si parla di carenza dei farmaci, le cause sono concatenate e molteplici. La corsa per fare scorte di medicinali legata al periodo di pandemia, le materie prime sempre più difficili da reperire. Di fatto oggi, in Italia, l’ostacolo principale (se si escludono dai dati Aifa i casi di cessata commercializzazione) è rappresentato da problemi produttivi. Anche per questo l’autonomia strategica nel settore farmaceutico è uno dei principali temi di discussione nell’Unione Europea, in cerca di una via per conservare reti globali di approvvigionamento e insieme ridurre ‘pericolose’ dipendenze dalle importazioni. “Avere una disponibilità di produttori di uno stesso medicinale o principio attivo – insomma – aiuterebbe molto”, spiega Paola Minghetti, professoressa alla facoltà di scienze del farmaco all’università degli Studi di Milano.

Da qui siamo partiti: con il team editoriale di GEA e insieme a I-Com, Istituto per la Competitività, abbiamo cercato di mostrare con l’aiuto dei numeri la dipendenza dell’Europa nell’importazione di medicinali e principi attivi. Il risultato? Abbiamo un potenziale problema nell’approvvigionamento di principi attivi, l’ingrediente fondamentale delle formule farmaceutiche.

Abbiamo selezionato un campione rappresentativo di 11 prodotti farmaceutici e 34 principi attivi importati dai Paesi dell’Ue, eliminando antibiotici e vaccini per evitare distorsioni su dati commerciali legati a picchi stagionali o pandemici. Per ognuno di loro abbiamo confrontato, grazie al database Eurostat (l’Ufficio statistico dell’Unione europea, che raccoglie ed elabora dati provenienti dagli Stati membri dell’UE) il numero di Paesi esportatori, la percentuale di partner extra-Ue e le diverse quote di mercato. Incrociando tra loro questi dati, abbiamo potuto calcolare un indice di concentrazione, e capire così – a livello economico – per quali e quante categorie di farmaci la dipendenza da import sia potenzialmente vulnerabile. Cioè con poca diversificazione e quote sbilanciate. Secondo l’analisi, un terzo dei prodotti del campione è potenzialmente a rischio. E, a parte un caso isolato, si tratta sempre di principi attivi. Il risultato dell’analisi è visibile qui: https://geagency.it/farmacodipendenti/

L’IMPORTAZIONE DI PRINCIPI ATTIVI? POTENZIALMENTE A RISCHIO – Oggi più del 70% dei principi attivi di uso consolidato in Europa dipende, direttamente o indirettamente, da produzioni primarie in Cina o in India” spiega Carlo Riccini, vicedirettore Farmindustria e direttore del centro studi dell’associazione. “E il 45% dei farmaci commercializzati in Europa è prodotto fuori dall’Ue” aggiunge Michele Uda, direttore generale di Egualia, l’organo di rappresentanza dell’industria dei farmaci generici. L’importazione di principi attivi con elevato indice di concentrazione può quindi essere messa in difficoltà da diversi fattori, come crisi economiche o geopolitiche, aumento dell’inflazione, emergenza sanitaria ed elevata richiesta di prodotti e principi attivi legata alla stagionalità. “Il problema esiste: è reale e documentato”, conferma Uda, “ed è difficile valutare analiticamente la dipendenza dalla Cina nella catena di approvvigionamento. Infatti, oltre alla grande produzione di principi attivi in Cina, molti produttori importano da quel Paese anche principi attivi pre-purificati, Ksm o intermedi di sintesi”. Alcuni dati sono però certi: “La Cina detiene il 13% dei CEP, i certificati di conformità della Farmacopea UE e ospita il 26% dei produttori di principi attivi”. I problemi di approvvigionamento a livello globale, del resto, hanno interessato tutte le filiere industriali, compresa la farmaceutica, “che comunque li ha gestiti in modo molto efficace. Le imprese hanno fatto il massimo”, assicura Carlo Riccini. “Bisogna considerare che gli aumenti dei costi sono strutturali e la farmaceutica li ha assorbiti senza poi trasferirli sui prezzi dei farmaci rimborsabili, con gravi difficoltà per le condizioni operative delle aziende”. Rispetto a quanto accade nella maggior parte delle materie prime ad uso industriale, però, i principi attivi hanno un’importante differenza: possono essere fabbricati. La domanda nasce legittima: perché, allora, in Europa non si è investito, negli ultimi 20 anni, nella produzione massiccia di principi attivi?

UNA PRODUZIONE ‘MANCATA’. LE MOTIVAZIONI – Le ragioni di questa mancata produzione “sono essenzialmente economiche”, spiega Uda. Da un lato “la rigidità della tutela brevettuale europea, che ha impedito per lungo tempo la messa in produzione anticipata dei generici entro i confini dell’Ue in vista delle relative scadenze brevettuali”. Dall’altro, “una politica di progressiva riduzione della spesa farmaceutica dei Paesi europei, utilizzando principalmente lo strumento dei farmaci equivalenti e dei biosimilari per forzare i prezzi di rimborso al livello più basso possibile. La nostra industria ha reagito ottimizzando tutti i possibili costi soggetti a variabilità, lavorando at full capacity nei propri stabilimenti per incontrare questa necessità. Allo stesso tempo, però, molte produzioni di principi attivi e di prodotti finiti si sono spostate fuori dai confini dell’Ue”, rendendoci così molto più dipendenti di prima. “Servirebbero politiche complessivamente attrattive”, continua Carlo Riccini, “anche per i prodotti finiti e non solo per i principi attivi. Per esempio, bisognerebbe garantire un finanziamento adeguato, una gestione della spesa compatibile con la presenza industriale e incentivi agli investimenti”. È poi da considerare un elemento in più. “Di tutta la filiera, la componente potenzialmente più inquinante è proprio la produzione di principi attivi” puntualizza la professoressa Paola Minghetti. “I farmaci prodotti in molti Paesi fuori dall’Europa hanno costi più bassi, ma con una qualità assolutamente assimilabile alla nostra. I costi più contenuti sono probabilmente dovuti a normative meno rigide sulla tutela ambientale e degli operatori”.

UN RESHORING POSSIBILE, MA DIFFICILE – Anche per questo, un ritorno della produzione in Europa, per essere competitivo, dovrà passare da meccanismi premianti. “Un reshoring – ovvero il riportare la produzione nel Paese d’origine – è molto difficile da realizzare, senza un cambio della normativa europea sugli aiuti di Stato e di passo nelle politiche di acquisto dei farmaci al massimo ribasso vigenti in tutta l’Unione”, conclude Michele Uda. Anche perché, nei prossimi decenni, l’Europa dovrà recuperare terreno sia nei confronti dei Paesi asiatici che degli USA: in entrambi i casi, i Governi hanno messo sul piatto miliardi di risorse pubbliche. E, come ricorda Riccini, “dobbiamo essere veloci nell’adottare strategie di sistema. Nelle giuste condizioni, l’industria è pronta a investire ancora”.

Chiara Troiano

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