ANTONIO GOZZI CEO GRUPPO DUFERCO
Noi, per il mestiere che facciamo, ci siamo occupati finora di segnalare le insufficienze e i gravi errori commessi negli ultimi anni dall’Europa in tema di industria e di competitività e abbiamo denunciato la necessità di un cambiamento rapido di impostazione e di politiche dell’Unione pena la fine rapida del sistema industriale europeo con tutte le conseguenze economiche e sociali collegate.
Pochi giorni fa, da par suo, Giovanni Orsina, professore ordinario di Storia contemporanea alla LUISS, sulle pagine de ‘Il Giornale’ ha avuto il grande merito di avviare, almeno in Italia, un dibattito più largo e fondamentale sul tema chiave: che fare dell’Unione Europea?
Pur non essendo né storici né politologi ci piace riprendere la sua riflessione perché ci pare quanto mai attuale e centrata e completamente coerente con le nostre preoccupazioni sull’economia e sull’industria.
Orsina apre affermando: “Il federalismo europeo non ha mai avuto la minima chance”.
Ma questo del federalismo europeo mancato, dell’aspirazione (irrealistica) ad un’Europa sempre più stato federale, è il “mantra” della maggior parte dei commentatori e opinionisti per spiegare tutto quello che è andato storto e seguiterà ad andare storto nelle politiche di Bruxelles.
Come è successo?
Dagli anni ’80 del secolo scorso fino al 2008 tutto è sembrato volgere al meglio. La fine della divisione del mondo, il conseguente allargamento degli orizzonti economici, la fine della storia e la globalizzazione con l’ingresso nella Cina nel WTO.
In Europa, simmetricamente, si registrava l’avvio della moneta unica e i progressivi allargamenti dell’Unione con la convinzione che ci sarebbe stato spazio largo per un miglioramento di tutti gli Stati e che le differenze e le contraddizioni, pur evidenti, sarebbero state appianate grazie a un poderoso balzo in avanti.
È allora che si fa strada l’idea che gli Stati nazionali europei siano un inutile retaggio del passato e che la nascita di un super Stato federale sia possibile. Nasce allora il sogno degli Stati Uniti d’Europa.
Sono questi gli stessi anni in cui si vede crescere una poderosa macchina amministrativa a Bruxelles. Se lo stato federale è alle porte, è di conseguenza necessario un apparato forte e potente capace di dominare la complessità e la vastità delle funzioni.
Quasi omeopaticamente la Commissione si trasforma nel Governo europeo, i Commissari sono simili a ministri a capo di portafogli somiglianti ai ministeri. Alla Commissione fanno capo ben 41 direzioni generali a loro volta articolate in centinaia di sub-direzioni a loro volta articolate in centinaia di servizi.
Questa burocrazia costa oggi più di 12,3 miliardi di euro l’anno!!
A corollario di questa fase nasce la Convenzione presieduta da Giscard d’Estaing con il compito di redigere la Costituzione per l’Europa.
Si sa come è andata: con il referendum in Francia del maggio del 2005 e quello seguente in Olanda venne bocciata l’ipotesi di costituzione e ciò decretò la fine di questa fase che potremmo definire “eroica” della storia europea. La crisi del 2008 e quella del 2011 misero anche fine al sogno di un’inarrestabile crescita europea capace di appianare ogni problema.
Anzi da allora ad oggi l’Europa ha conosciuto un declino economico preoccupante e ha perso un terzo del suo PIL rispetto agli USA che nel 2005 era praticamente uguale al PIL europeo.
Non è questa la sede, e forse non ne abbiamo neppure la capacità, di esaminare il perché di quelle scelte che spaccarono in modo drammatico il “sentiment” europeo.
Anche se ci piace ricordare l’europeismo troppe volte acritico delle classi dirigenti italiane perché reincarnazione del “vincolo esterno” che sarebbe stato indispensabile agli italiani incapaci di governarsi da soli. Quasi un complesso di inferiorità che nella retorica europeista troppo spesso, anche oggi, si manifesta soprattutto a sinistra.
Quello che a nostro parere rileva ai fini del problema che solleva Orsina, e che ha visto, sempre sulle pagine de ‘Il Giornale’, anche l’intervento del parlamentare europeo Fidanza, è esaminare ciò che è avvenuto in questi anni a Bruxelles e di cui soffriamo in modo drammatico le conseguenze.
Le classi dirigenti politiche a Bruxelles e la poderosa e sempre più arrogante struttura amministrativa, hanno pensato che tutto ciò fosse un inciampo dovuto soprattutto alla modestia delle classi dirigenti nazionali incapaci di cedere sovranità all’Europa e della “immaturità” dei popoli. Ed è così che la tecnocrazia di Bruxelles si è convinta di essere depositaria e custode di quel sogno che deve rimanere in vita. È per questo motivo che continuiamo a definire questa burocrazia “guardiana”.
Non avendo più all’orizzonte una fiscalità europea, e un conseguente bilancio federale (oggi siamo all’1% della somma dei PIL dei Paesi membri, in USA il bilancio federale vale il 25% del Pil), e non potendo fare politiche attive la tecnocrazia guardiana si convince e convince la politica di far diventare la UE una potenza regolatoria.
Il risultato è quello che Giulio Tremonti misura in chilometri di regolamenti e direttive.
Oggi tutto questo balza agli occhi perché l’avvenuta percezione del drammatico cambiamento dello scenario geo-politico, economico e militare ha messo a nudo l’irrealtà e l’inefficienza di quel processo.
Si rifletta sul fatto che l’attuale Commissione, da una parte riafferma “sacri principi”, ma dall’altra in realtà deve impegnarsi a smontare tutto quello che la precedente Commissione (la così detta era Timmermans per la verità ben coadiuvato dalla già presidente Ursula Von der Leyen) ha messo in piedi.
Il green deal è la manifestazione più eclatante di questa situazione.
Che fare, si chiede Orsina? Fidanza dà una risposta in termini istituzionali: un’Europa a cerchi concentrici che, ammesso e non concesso sia possibile e condivisa, richiede un difficile e probabilmente lungo processo politico.
Temiamo che il tempo non ci sia. Occorre agire subito. I cittadini europei impauriti del nuovo contesto e il sistema economico obbligato ad accettare la sfida che gli viene dal resto del mondo hanno bisogno ora di risposte.
A nostro parere si deve dare da subito un chiaro segnale alle strutture di Bruxelles di fermarsi nella loro distorsione regolatoria. Devono comprendere che non sono il “primus movens” ma una struttura al servizio delle decisioni politiche. Le politiche più importanti degli ultimi anni, specie quelle sull’industria e sulla competitività, vanno riesaminate integralmente, non nei dettagli e nei particolari ma nell’impostazione di fondo.
Per il settore manifatturiero in particolare bisogna riesaminare il green deal, i suoi obiettivi e la congruenza con i sistemi collegati, primi fra tutti CIBAM e ETS.
L’ETS in particolare è divenuto una mera tassa carbonica che nessuno al mondo ha, almeno di quelle proporzioni. Il sistema ETS oggi significa un aggravio di decine e decine di euro sul prezzo dell’energia che la rende, per le imprese industriali europee, la più cara del mondo appesantendone in modo grave la competitività.
Ci si chiede se il CBAM con le sue complessità applicative, insostenibili soprattutto per le pmi, sarà davvero in grado di bloccare i flussi deviati ed esorbitanti di produzioni cinesi capaci di dare un colpo feroce ai nostri assetti produttivi.
Ci si chiede perché non essendo la politica industriale materia comunitaria la si debba fare surrettiziamente attraverso un’iper-regolamentazione che ha molto più peso delle politiche industriali.
Torna con forza l’idea di un metodo della cooperazione intergovernativa, e dell’attuazione da parte della Commissione di accordi intergovernativi stipulati tra i grandi Stati industriali europei: Germania, Italia, Francia e Polonia. Questo presuppone che l’Italia non si faccia più passare sotto il naso misure che fanno il nostro danno e che rivendichi con forza il suo status di seconda nazione industriale europea e quarto esportatore mondiale.
Gli estensori del presente sono europeisti convinti. Ma pensano anche che se non si dà una svolta vera le opinioni pubbliche diverranno antieuropeiste con il rischio della rimessa in discussione anche delle grandi conquiste come mercato unico e moneta unica
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