Il punto di partenza è duplice. Il primo: gli ultimi dati sulla crisi dell’auto certificano uno sconfortante meno 40% di produzione a settembre. Il secondo: le considerazioni di Antonio Tajani sulla necessità di spostare più in là, molto più in là, il fine vita dei motori endotermici, ovvero dal 2035 al 2040, potendo fino al 2045. I numeri impietosi e la constatazione-augurio-speranza del vicepremier sono fortemente collegati e confezionano segnali preoccupanti per il futuro che attende il comparto industriale più importante non solo in Italia ma nel Continente.
Sul fatto che si vendano meno automobili non possono esserci perplessità, è un riscontro acclarato da parecchio tempo, come è evidente che all’interno di questa crisi allargata a quasi tutti i Paesi della Ue i veicoli elettrici si vendano ancora meno e rappresentino una quota infinitesimale di mercato. Le ragioni sono molteplici e già esplorate migliaia di volte: il costo chiavi in mano, il problema dei rifornimenti, l’autonomia delle batterie, il mercato dell’usato praticamente inesistente, eccetera eccetera. Piccola ma non trascurabile contraddizione in termini: se la transizione all’elettrico è propedeutica ad abbassare le quote di emissione di CO2 e raggiungere i target autoimposti dalla Ue, non vendendo uno straccio di autovetture con motore elettrico non si abbatte nulla. Se non lo stato di salute dell’economia. E non solo.
Qui si innesta la considerazione di buonsenso di Tajani che chiede alla ‘sua’ Europa di allungare i termini del processo di ‘metamorfosi meccanica’. Il passaggio all’elettrico non è in discussione – perché molte aziende hanno convertito buona parte dei propri impianti e perché dalla Cina agli Usa la direzione presa è questa – i tempi al contrario sono suscettibili di correzione: altri dieci anni in più, o per lo meno altri cinque, in maniera da creare una zona cuscinetto che non impatti sui clienti finali e su chi fa parte dell’indotto automotive. Del resto, risuonano come campane a morto le considerazioni di Mario Draghi nell’ormai famoso rapporto redatto per dare la scossa a Bruxelles: “Il settore automobilistico è un esempio chiave della mancanza di pianificazione dell’Ue, che applica una politica climatica senza una politica industriale”. Frase applicabile ad altri comparti, come ad esempio quello della siderurgia, cavallo di battaglia del presidente di Federacciai Antonio Gozzi.
Ma torniamo all’automotive. Stellantis è il caso più roboante perché ci riguarda da vicino e perché di qui a pochi giorni ci sarà un tavolo di trattativa al ministero delle Imprese e del made in Italy, ma il disagio è allargato a Volkswagen, Porsche, Toyota dove si chiudono stabilimenti, si licenziano operai, si modificano strategie, si mettono in dubbio le gigafactory, si guarda alla Cina come partner territoriale (venghino, venghino signori a costruire da noi), si calcola il gap sulle materie prime. Niente di buono, insomma. E’ per questo che c’è molta attesa per il Clean Industrial Deal, un maxi piano di investimenti per rilanciare la competitività industriale del Vecchio Continente che la nuova Commissione di Ursula von der Leyen – con calma, ovvio – dovrebbe presentare a stretto dì giro di posta. E’ l’evoluzione del poco fortunato Green deal e, oltre a facilitare un quadro normativo complesso per favorire l’approccio verso tecnologie pulite, dovrà mettere sul piatto parecchi denari. Quanto? Circa 450 miliardi all’anno, sempre citando le stime di Draghi.
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