L’Europa detta ancora legge: quella sulla natura non mette tutti d’accordo

Salutata come una vittoria storica – vittoria lo è sicuramente, storica vedremo cosa racconterà negli anni la storia medesima – la Nature Restoration Law determina due situazioni fattuali: la prima, vincolante, prevede (tra le altre cose) di ripristinare il 20% delle aree terrestri e marine in modo da tutelare la biodiversità entro l’ormai fatidico 2030 e, sempre entro la stessa data, la limitazione dell’uso dei pesticidi, la salvaguardia e aumento degli spazi verdi urbani a fronte di 100 miliardi messi a disposizione dei Paesi membri; la seconda, non meno importante, allarga di fatto quelle fessurine che ci sono nel tessuto connettivo europeo fino a farle diventare crepe. Perché, sì, il parlamento europeo ha approvato la proposta della Commissione ma con una maggioranza così risicata (336 a favore e 300 contrari più 13 astenuti. Domanda: ma astenuti da cosa?) da spaccare l’Aula e da spaccare a sua volta il Ppe che pur di bloccare la legge sul ripristino della natura si è spinto fino a chiedere la sfiducia di Ursula von der Leyen.

Il dato politico è il successo dei liberali e la sconfitta della destra oltre che del Ppe; il dato di fatto è la gestione del futuro immediato, tenuto conto che da qui a meno di un anno ci saranno le elezioni e proprio sulla natura, e tutto ciò che attiene alla salvaguardia del pianeta, si giocherà la partita più dura e, probabilmente, decisiva. Il terzo dato che emerge è di pura cronaca, una fotografia in bianco-e-nero della realtà: ormai qualsiasi provvedimento venga adottato dalla Commissione e vidimato dal Parlamento Ue in merito a questioni ambientali divide, polverizza, inasprisce. L’elenco è lungo: auto elettriche, case green, pompe di calore, packaging. E adesso il primo sì alla Nature Restoration Law.

Lontani da posizioni ideologiche, vicini alle esigenze del Pianeta e non distanti dai bisogni di chi lavora per vivere o sopravvivere (gli agricoltori, ad esempio), stabilire cosa sia giusto o sbagliato è un equilibrismo. Sono le esasperazioni che spesso inducono ad altri radicalismi e certe flessibilità percepite a Strasburgo aiutano ad accettare con minori preoccupazioni nuove regole. Gli ultra-ambientalisti, a ben pensare, nel loro nobilissimo intento di non rovinare ciò che ci è stato donato, a volte vanno troppo oltre e innescano processi all’incontrario. Nella stessa misura in cui gli eco-imbrattatori con l’obiettivo di sensibilizzare provocano reazioni alla rovescia. O, dall’altra parte, coloro che difendono le ragioni, giustissime, di famiglie e imprese schiacciate nella morsa del caro-prezzi e dei costi di una transizione ‘green’, dimenticano spesso di considerare le conseguenze di una ‘crisi’ climatica c’è pesantemente in atto.

Il punto, forse, sta proprio qui: l’eccesso di regole che impone la Ue, è ‘figlio’ verosimilmente di una fisiologica incapacità di fare politica. E non può essere Greta Thunberg – con tutto il rispetto – a dettare l’agenda degli eurodeputati.

Vittorio Oreggia

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