Non ci sono dubbi che da più parti ci sia una chiara tendenza ad accelerare sul nucleare di terza generazione avanzata e di quarta generazione per rendere (più) accessibile il costo dell’energia e, estendendo il concetto, per rendere più competitiva la nostra industria. Un’esigenza – accanto alla necessità di spingere sulle rinnovabili che però restano fonti intermittenti: l’eolico dipende dal vento, il solare può funzionare solo di giorno – emersa (anche/soprattutto) dall’intervento di due ministri al convegno organizzato da Assovetro sulla transizione ecologica della filiera. Sia Gilberto Pichetto Fratin, tenutario del dicastero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, sia Adolfo Urso, dominus del dicastero delle Imprese e del Made in Italy, hanno infatti sottolineato la necessità di virare in fretta verso la direzione di una fonte che in realtà allo stato delle cose è ‘bandita’ da due referendum. Che per la verità sono un po’ impolverati e un po’ superati dall’evoluzione tecnico-scientifica ma il cui esito è ancora vincolante.
E’ stato in particolare l’inquilino del Mimit a imprimere una spinta sostanziale verso il nucleare con una presa di posizione e delle dichiarazioni inequivocabili. “Siamo già d’accordo nel realizzare un contesto legislativo che consenta di installare il nucleare di nuova generazione nel nostro Paese per sopperire alle esigenze energetiche. Nel contempo, stiamo lavorando perché sia realizzata una iniziativa italiana per produrre gli Small Reactor su basi industriali modulari nel nostro Paese per chiunque li chieda nel mondo”, le parole del ministro. Ora, la domanda è una sola: il dado è tratto? La risposta è no. O per lo meno non è univoca, perché il contesto legislativo di cui parla Urso non è semplice da ridefinire, perché è presumibile che il contraddittorio sarà periglioso e non fluido, perché in Italia nulla è semplice, figurarsi quando di mezzo c’è il nucleare. Che, però, appare una delle soluzioni irrinunciabili per non finire in un angolino in Europa. Là dove la Spagna è avanti anni luce sulle rinnovabili, la Francia ha una cinquantina di centrali, la Germania pur in crisi a margini di operatività economica superiori ai nostri. Tra parentesi, la Francia ci vende l’energia prodotta proprio dal nucleare.
In questo contesto, gli small reactor sembra abbiano superato a sinistra l’idrogeno verde, che è più costoso e offre problematiche di adattamento delle reti. Non che sia da abbandonare, l’idrogeno, ma il sentore comune è che la tecnologia nucleare possa fornire risultati più concreti e meno costosi. Perché sono anche i tempi a dettare l’agenda energetica: cominciando subito, i piccoli reattori potrebbero essere funzionanti in 4-5 anni. D’altronde, la necessità di affrontare prima le imcombenze del presente rispetto alle strategie a medio e lungo termine è emersa anche dall’intervento di Antonio Gozzi, presidente di Federacciai e di Duferco. C’è un’emergenza palese, evidentissima, di fronte alla quale gli Stati e più in assoluto l’Europa non possono sottrarsi.
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