Come è abbastanza prevedibile, cosa succederà domani laggiù, dall’altra parte dell’Oceano, sarà dirimente per noi che stiamo di qua, da questa parte dell’Oceano, zavorrati dalla crisi: economica e identitaria. L’esito delle elezioni americane è sempre stato fondamentale per il galleggiamento dell’Europa, ma mai come questa volta la vittoria di una o dell’altro, cioè di Kamala Harris o di Donald Trump, avrà contaminazioni sulla vita un po’ sbilenca del Vecchio Continente.
Intanto, mentre tra Washington e Filadelfia, tra l’old West e il frizzante Est si stanno prendendo a male parole abbassando il livello del dibattito politico, a Bruxelles si contano i passi delle formiche. Perché oggi cominciano le audizioni dei commissari: oggi, ovvero cinque mesi dopo le elezioni di giugno, come se il tempo si fosse fermato alla fine della primavera e le istituzioni europee non avessero percezione dell’urgenza che sta zavorrando qualsiasi passaggio della nostra esistenza. Eppure Mario Draghi, con il suo rapporto shock, la sveglia l’ha suonata. Ma nulla è cambiato. Senza fretta, i parrucconi della Ue danno un voto ai candidati commissari, manco fossimo a un esame universitario, confermando di essere schiavi di una lentezza burocratica ormai elefantiaca. Di solito le commissioni iniziano a lavorare a inizio novembre (sempre con una discreta calma) ma questa volta si va lunghi perché per consuetudine è necessario che ci siano due riunioni parlamentari a Bruxelles prima di cominciare e, sempre stavolta, le agende non coincidevano con le due Plenarie di Strasburgo. Una pastoia da Politburo.
Europa a parte, negli Usa si cammina su un crinale: la caccia all’ultimo voto, in particolare di ebrei e arabi, le accuse di Trump sulle presunte truffe elettorali, gli attacchi di Kamala con l’endorsement di attori hollywoodiani e la spalla di Barak Obama, un clima di tensione fuori dall’ordinario. Dai che ci siamo. Se l’ex presidente promette tagli alle tasse e alle spese, l’attuale vice presidente garantisce più tasse per i ricchi e austerità per la spesa pubblica; se Trump sta con Israele e contro l’Iran, Harris sta con Israele ma invoca due Stati; se il Tycoon è amico di Putin e garantisce una soluzione pressoché immediata del conflitto ucraino, l’ex procuratrice si schiera dalla parte di Zelensky. Insomma, posizioni radicalmente diverse. Anche/soprattutto sui temi ambientali che, in prospettiva, sono pure economici.
Trump ha annunciato la volontà di uscire di nuovo dall’accordo sul clima in cui l’America è rientrata nel 2021 dando così seguito all’atteggiamento mantenuto nel suo primo mandato: si è esposto con le grandi major statunitensi, affermando che – se eletto – toglierà tutti quei lacci e lacciuoli ambientalisti che frenano gli interessi delle industrie di prodotti fossili. Una posizione non proprio da negazionista ma quasi, il ‘make America great again’ passa anche da lì, cioè sopra la salute del Pianeta. Nella cecità c’è un’ottusa coerenza.
E Harris? L’Inflaction Reduction Act è una delle tante normative ambientali messe a terra durante l’amministrazione Biden, normative che hanno visto proprio la vice presidente tra i protagonisti principali. Nell’immaginario di Kamala, gli Usa devono essere la locomotiva della lotta al cambiamento climatico, perché basta affacciarsi fuori dalla finestra per capire che qualcosa non va, o non va più. Ma tra il dire e il fare ci stanno di mezzo gli interessi di lobby potentissime e niente è automatico dopo il voto.
E intanto, come le stelle di Cronin, l’Europa sta a guardare
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