Da oltre 20 anni università e aziende inseguono il ‘Sacro Graal’ dell’energia. Ciò che sembrava impossibile nel 2000 e che veniva considerata una semplice ‘visione’ nel 2010 si sta concretizzando in decine di Paesi del mondo. Addirittura nel 2002 persino l’economista Jeremy Rifkin teorizzava l’avvento “dell’era dell’idrogeno”. Sta di fatto che da due decenni si fa ricerca applicata sulla fonte rinnovabile per eccellenza e dal 2019 è iniziata la vera svolta. Fu l’Agenzia Internazionale dell’Energia (Iea) a confermare l’enorme potenzialità dell’idrogeno verde, occupandosi dei notevoli passi in avanti di tre Paesi (Francia, Giappone e Corea del Sud) che avevano già definito strategie nazionali per la produzione e l’utilizzo dell’idrogeno. Ebbene, l’esempio è stato seguito da almeno 15 Stati e altri 20 stanno preparando la propria strategia sulla variante verde dell’idrogeno. In Europa progetti nazionali e investimenti verranno favoriti dal Green deal per l’abbattimento delle emissioni di gas serra del 55% entro il 2030. Per questo l’Ue sta incoraggiando la cooperazione tra governi, istituzioni e principali player del settore. In Italia un ruolo di primo piano sarà giocato da Eni, Enel e Snam. La ‘Relazione sulla situazione energetica nazionale’ del ministero della Transizione ecologica, stima che oltre il 70% della rete dei metanodotti Snam siano pronti a trasportare idrogeno. Gli investimenti saranno dunque pubblici e privati e saranno rivolti anche alla realizzazione di impianti e reti di distribuzione
L’Hydrogen Council, che raggruppa un centinaio di amministratori delegati e top manager dell’energia e dei trasporti e dell’industria, ha stimato che entro il 2030 si produrranno 10 milioni di tonnellate di idrogeno, il 70% verde e il 30% blu. Proprio sulla versione ‘green’ si concentra l’attenzione dei governi più avanzati, data la necessità di approntare infrastrutture specifiche, dalle reti di distribuzione alla riconversione di aziende fino ai trasporti.
L’idrogeno verde è il punto d’arrivo ideale delle strategie nazionali di quei Paesi che stanno già investendo sulla decarbonizzazione. Si tratta infatti della variante ‘green’ dell’idrogeno che viene prodotta a basso impatto ambientale (tendente a zero) tramite il processo di elettrolisi dell’acqua alimentato da energia proveniente da fonti rinnovabili. La variante verde si differenzia da quella grigia, che viene prodotta attraverso lo steam reforming del metano (con conseguente dispersione nell’ambiente di enormi quantità di anidride carbonica) e si distingue da quella blu, anch’essa ottenuta mediante steam reforming ma con la ‘cattura’ delle particelle di CO2.
I governi più lungimiranti si stanno giù muovendo nella realizzazione delle infrastrutture di sviluppo e produzione di idrogeno verde e in alcuni casi si prevede la costruzione di impianti di elettrolisi a energia solare entro i prossimi due anni. Potrebbero intervenire però alcune incognite: tensioni geopolitiche (una su tutte la guerra in Ucraina), crisi della supply chain e della produzione di alta tecnologia, incremento abnorme dei prezzi dei beni energetici. In più è necessaria una grande quantità di elettricità pulita per il processo di elettrolisi: sarà fondamentale il ridimensionamento dei parchi fotovoltaici e soprattutto l’investimento in tecnologie più efficienti. Quest’ultimo fattore sarà cruciale nell’immediato futuro: il decremento dei costi di produzione e dei prezzi delle energie pulite agevoleranno la produzione di idrogeno verde. L’aumento della domanda potrebbe portare il prezzo dell’idrogeno verde dai 4-6 dollari al chilo a meno di 2 dollari al chilo nel 2030 e a 1,5 nel 2050. Attualmente l’idrogeno grigio costa attorno a 1,5 dollari al chilo e quello blu tra i 2 e i 2,5 dollari.
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