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Il globalismo mercatista non sa proteggere l’industria europea

L’annunciata possibile chiusura di stabilimenti di produzione della Volkswagen in Germania appare come il simbolo della crisi profonda in cui versano molti settori dell’industria europea (l’automotive è uno di questi) per troppo tempo maltrattati dalle politiche dell’Unione.

Per i tedeschi la vicenda è uno shock: sarebbe la prima volta in 87 anni di storia che il colosso automobilistico chiude una sua fabbrica in patria.

La ragione delle ventilate chiusure è, secondo l’AD di Volkswagen Olivier Blume, che “la Germania come sede di produzione di auto sta perdendo terreno in termini di competitività, e che il clima economico è diventato ancora più difficile, e nuovi operatori stanno entrando in Europa”.

Il tema della perdita di competitività dell’Europa e della sua industria, e del gigantesco gap di crescita nei confronti di altre aree economiche forti del mondo (Usa e Cina innanzitutto), si impone con brutalità nel dibattito sul futuro della nostra economia e del nostro modello sociale; e richiama i gravi errori commessi dall’Unione Europea negli ultimi 20 anni.

Abbiamo la speranza che l’Europa si interroghi con umiltà su questi errori e che cerchi realisticamente di porvi rimedio.

È di questi giorni la notizia che settori maggioritari della CDU, colpiti dalla vicenda Volkswagen e dall’esito delle elezioni in Turingia e Sassonia, chiederebbero di rivedere in sede europea la scadenza del 2035 per l’eliminazione delle auto con motore endotermico. Questo della messa al bando dei motori endotermici è un perfetto esempio dell’estremismo ideologico ambientalista che ha permeato le decisioni dell’Unione, e che è stato subìto e poco contrastato anche dalle case automobilistiche europee, che avevano una leadership a livello mondiale proprio su questo tipo di motori.

La crisi è così grave da aver indotto Ursula Von der Leyen a commissionare a Mario Draghi uno studio proprio sul recupero di competitività; studio che è stato presentato proprio in questi giorni e che, a tratti, ha accenti drammatici.

Ma del lavoro di Mario Draghi ci occuperemo nel prossimo numero di PL.

Oggi ci interessa approfondire il tema, comunque connesso alla tenuta dell’industria europea, della sua protezione tramite diverse misure compresi i dazi.

Storicamente l’Unione Europea è stata l’area del mondo più aperta al commercio internazionale, nella quale i principi di libero scambio e dell’apertura totale, così come quello della limitazione all’intervento dello Stato in economia, sono stati costitutivi dell’Unione stessa.

Da più parti, alla luce tanto della performance di crescita così modesta dell’economia europea negli ultimi venti anni quanto della conclamata crisi di interi settori industriali esposti alla competizione internazionale, si chiede oggi di rivedere quei principi ritenendoli non più adeguati alla fase che stiamo vivendo.

Il ragionamento che viene fatto è più o meno il seguente: le due grandi economie che hanno sopravanzato l’Europa in termini di crescita e innovazione nei settori di punta come IA, biotecnologie, farmaceutica ecc., cioè Stati Uniti d’America e Cina, non declinano i principi del libero scambio e del non intervento dello Stato in economia ma, al contrario, sono caratterizzate da forti politiche protezionistiche a difesa delle industrie interne (USA) e da un forte intervento dello Stato: in USA attraverso la spesa militare, in Cina attraverso le sovvenzioni gigantesche a quasi tutti i settori industriali. Se si guardano i loro risultati in termini di crescita del PIL, dell’occupazione e della leadership tecnologica questa impostazione sembrerebbe molto più efficace di quanto non siano le politiche europee di libero scambio e di non intervento dello Stato in economia.

A questa tendenza critica nei confronti dell’impostazione di politica economica e industriale dell’Unione, che ritiene sempre più necessario un cambio di passo e che guarda alle protezioni come strumenti necessari nelle condizioni date, si oppongono correnti politiche e di pensiero che sostengono e sottolineano i benefici della globalizzazione e dei mercati aperti.

Questa seconda visione si rifà alla ‘mano invisibile’ di Adam Smith (per cui l’interazione sul libero mercato degli agenti economici, ciascuno mosso soltanto dal proprio self interest, determinerebbe il massimo benessere per l’intera collettività) e alla teoria dei ‘vantaggi comparati’ di Ricardo (per cui ogni paese può trarre vantaggio dal commercio internazionale perché lo stesso favorisce a specializzazione produttiva, garantisce una maggiore produzione a livello mondiale e consente un miglioramento del tenore di vita delle popolazioni) e sostiene con forza la tesi che l’Europa non debba infilarsi in una spirale protezionistica ma debba continuare ad essere il più grande presidio mondiale dell’apertura dei mercati.

Come industriale ed esponente di Confindustria, spesso mi si chiede di esprimere la mia opinione in materia, anche perché in questi anni non ho lesinato forti critiche ad un’impostazione europea che non ha messo l’industria al centro.

La mia opinione è che il tema vada affrontato con spirito pragmatico, tenendo conto delle condizioni reali in cui si trovano l’economia e l’industria europee e ricordando sempre che anche le teorie economiche sono figlie della storia e rispecchiano quindi le diverse fasi e i diversi interessi degli attori in campo.

Ovviamente per un paese esportatore come l’Italia (nel 2023 l’industria manifatturiera italiana ha fatturato 1200 miliardi di euro ed ha esportato per 670 miliardi di euro; e nei primi sei mesi del 2024 abbiamo probabilmente superato il Giappone in quanto a esportazioni) un’impostazione favorevole al commercio e agli scambi internazionali è obbligatoria. Tra l’altro essendo l’Italia un Paese senza materie prime importiamo anche moltissimi beni primari, semiprodotti e componenti, che vengono interiorizzati nei nostri manufatti. Da una chiusura dei commerci internazionali trarremmo solo danni.

Allo stesso tempo anche l’industria italiana vede interi settori di base (posso citare quello della ceramica e delle piastrelle perché è un caso emblematico) esposti alla concorrenza internazionale e fortemente danneggiati e spiazzati: dall’alto costo dell’energia che penalizza l’Europa rispetto alle altre aree del mondo concorrenti; dalle insensate modalità con cui nell’era Timmermans l’Europa ha condotto le politiche di decarbonizzazione; e dalla lentezza con cui fino ad oggi l’Unione Europea ha gestito le pratiche di antidumping e di contrasto alla concorrenza internazionale sleale.

Questi settori rischiano di scomparire non per loro inefficienza ma per condizioni al contorno penalizzanti.

Non parliamo poi di quando, come nel caso delle auto elettriche, i concorrenti (Cina innanzitutto) sono sovvenzionati dallo Stato e riescono a essere competitivi in maniera sleale perché appunto favoriti da sussidi e aiuti pubblici. La sovracapacità produttiva cinese, estesa a quasi tutti i settori dell’industria manifatturiera, e la decisione del Governo di Pechino di non rallentare mai le produzioni, neanche nei momenti di crisi, cercando sbocchi nelle esportazioni sostitutive della domanda interna che non beve, costituisce, e costituirà sempre di più in futuro, un gigantesco fattore di destabilizzazione dell’economia mondiale. Il tasso di statalizzazione dell’industria cinese sta crescendo velocemente per scelta politica e quindi la competizione sarà sempre più viziata e distorta.

Se non si interviene con forti misure di protezione, ad esempio per il comparto automobilistico e per altri settori dell’industria europea, questi sono destinati a sparire in pochi anni, con tutte le conseguenze economiche e sociali del caso. Lo stesso Draghi nel suo rapporto sostiene la necessità di questa protezione.

Sempre Draghi per giustificare questo approccio di protezione di taluni settori industriali ha affermato, con efficace metafora, che in una giungla abitata da animali carnivori è difficile sopravvivere essendo erbivori.

Un’altra considerazione che mi sento di fare è quella relativa ad un quadro geo-politico in forte cambiamento all’interno del quale l’Occidente, che difende libertà e democrazia, deve fare i conti con economie e Paesi autocratici, teocratici, dittatoriali, neo-imperialisti che hanno come obiettivo la sconfitta dell’Occidente e dei suoi valori.

È il tema che va sotto il nome di de-risking, che significa che il commercio internazionale non può diventare uno strumento per mettere a rischio i livelli di sicurezza delle nostre democrazie. Ovviamente ciò vale soprattutto per le forniture militari, ma anche per l’elettronica, le biotecnologie, l’aereospazio ecc.

In questa nuova situazione dobbiamo abituarci a pensare ad aree di libero scambio tra Paesi amici, che condividono gli stessi valori e interessi, e a una maggiore cautela negli scambi con chi non perde occasione per attaccare l’Occidente.

Ciò complica ancora di più il quadro e ci fa capire come si devono usare contemporaneamente, e in misura mirata, strumenti di protezione e di apertura ai mercati calibrando attentamente il peso e la portata degli interventi. E ciò lo si deve fare senza ideologismi ma con tanto pragmatismo.

Si tratta di un esercizio difficile e sofisticato che l’Europa finora non è stata in grado di fare.

C’è un caso recente che spiega bene il concetto e mostra gli errori compiuti anche in tempi recenti dalla Commissione e la sua incapacità a capire il nuovo: durante la sua presidenza Trump introdusse un sistema di dazi a protezione dell’acciaio e dell’alluminio americani. L’UE giustamente ha protestato a lungo contro questa misura ritenendola incompatibile con le regole del Wto (l’Organizzazione del Commercio Internazionale), regole che per la verità solo l’Europa rispetta.

Il Presidente Biden, per venire incontro alle lamentele europee, ha aperto un negoziato con l’UE proponendo un’area di libero scambio fatta da Usa, Canada, Messico, UE, Corea del Sud, Giappone e Australia nella quale questi dazi su acciaio e alluminio non sarebbero più esistiti, a condizione di mantenere la protezione daziaria nei confronti della Cina.

L’Europa, per ragioni ideologiche e probabilmente per il terrore tedesco ogni volta che vengono ventilate misure nei confronti della competizione sleale della Cina, ha rifiutato la proposta di Biden, così oggi i dazi americani sull’acciaio e l’alluminio sono ancora lì, e ancora la siderurgia europea non riesce a esportare un Kg di acciaio negli Usa.

Ciò che facciamo fatica a far capire alla politica e alla tecnocrazia comunitaria, intrise di ideologia globalista e mercatista, è che i cambiamenti vanno governati e che senza attenzione all’industria e alla sua sopravvivenza ben presto anche il modello sociale europeo di cui siamo tanto orgogliosi non esisterà più. I ceti sociali più deboli, non sentendosi protetti, si rivolgono al populismo e alla protesta estrema e anche per questo le nostre democrazie saranno in pericolo.

Lo sbandamento politico di Francia e Germania deve fare riflettere al riguardo.

Vittorio Oreggia

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