La produzione industriale rialza la testa e vede la luce in fondo al tunnel

Rialza subito la testa la produzione industriale. Dopo il -3,1% mensile di dicembre, gennaio ha aperto l’anno con un +3,2% congiunturale. Un dato nettamente superiore alle attese che indicavano un +1,5%. Una volatilità così elevata nella misura destagionalizzata ha a che fare con la distribuzione dei giorni lavorativi nei due mesi.

Confrontando infatti il periodo novembre-gennaio con il trimestre precedente, abbiamo una crescita piatta, che è un quadro più credibile dello stato effettivo delle condizioni industriali. “La fase debole del settore manifatturiero non è ancora finita, ma si sta stabilizzando”, commentano gli analisti di Ing. Nel dettaglio a gennaio l’indice destagionalizzato della produzione industriale è aumentato del 3,2% rispetto a dicembre, confermando una crescita anche se più moderata rispetto al mese precedente. Tuttavia, nella media del trimestre novembre-gennaio, il livello della produzione è rimasto stabile rispetto ai tre mesi precedenti. Nonostante questo incremento, l’andamento mensile non è stato uniforme.

Aumenti significativi sono stati registrati per i beni strumentali, i beni intermedi e i beni di consumo, con rispettivamente +4,1%, +4,0% e +2,6%. Al contrario, l’energia ha subito una flessione del 3,4%, rappresentando l’unica categoria in negativo su base mensile. Anno su anno invece l’indice generale della produzione industriale ha visto una diminuzione dello 0,6% a gennaio, a causa della differenza nei giorni lavorativi rispetto al gennaio 2024.

Solo i beni di consumo hanno visto una leggera crescita (+0,4%), mentre tutti gli altri settori principali hanno mostrato segnali di rallentamento, in particolare i beni strumentali e l’energia, che sono diminuiti dello 0,8%, e i beni intermedi, con un calo dello 0,6%. Tra i settori più dinamici, spiccano i prodotti farmaceutici, con un aumento del 21,7%, seguiti dall’industria del legno e della carta, che ha registrato un incremento del 6,2%, e dalla fabbricazione di prodotti chimici (+4,3%). D’altro canto, le flessioni più rilevanti si sono verificate nella produzione di mezzi di trasporto, che ha visto una contrazione del 13,1%, nell’industria tessile e dell’abbigliamento (-12,3%) e nella fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-6,2%).

Visti i dati di gennaio e il nuovo taglio dei tassi di interesse, il peggio potrebbe essere passato. A febbraio la fiducia delle aziende manifatturiere è leggermente cresciuto e l’indice Pmi manifatturiero è aumentato a 47,4: ancora in contrazione, ma registrando il tasso di declino più debole in cinque mesi. “Se le prospettive a breve termine sono stabili, il piano europeo Re-Arm e la spesa infrastrutturale tedesca probabilmente avranno un impatto positivo sull’industria italiana a lungo termine”, spiegano gli analisti di Ing. Certo, “ci vorrà del tempo prima che questi investimenti si riflettano in modo significativo nelle cifre della produzione italiana. Tuttavia, c’è un po’ di luce alla fine del tunnel”, sottolineano dalla banca olandese

Crolla l’industria in Italia. Opposizioni: “Urso si dimetta”. Il ministro: “Crisi in tutta Ue”

Crolla la produzione industriale in Italia. A dicembre 2024 l’Istat stima una perdita del 3,1% rispetto a novembre, del 7,1% su base annua. Nella media del quarto trimestre il livello della produzione si riduce dell’1,2% rispetto ai tre mesi precedenti, quando le stime erano solo per un -0,1% mensile dopo il +0,3% congiunturale di novembre.

Nel 2024, spiega l’istituto commentando i dati, la dinamica tendenziale dell’indice corretto per gli effetti di calendario è stata negativa per tutti i mesi, con cali in tutti i trimestri. Solamente per l’energia c’è un incremento nel complesso e, nell’ambito della manifattura, solo le industrie alimentari, bevande e tabacco sono in crescita rispetto all’anno precedente, mentre le flessioni più marcate si rilevano per industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori e fabbricazione di mezzi di trasporto.

Una catastrofe secondo le opposizioni, che chiedono la testa del ministro delle Imprese e del Made in Italy. “La crisi della produzione industriale non è italiana, ma europea, a partire da Paesi come la Germania“, si difende Alfonso Urso. L’idea è quella di rafforzare la posizione italiana come seconda industria manifatturiera europea, anche perché, osserva, “la Germania ha problemi strutturali maggiori dei nostri“.

Intanto però i parlamentari del Movimento 5 Stelle ricordano i 42 miliardi di ricavi “bruciati” nel 2024, oltre al “calo eclatante” della produzione. Si tratta del 23esimo mese in fila di “crollo inesorabile” che per i pentastellati è ascrivibile in toto alla “inesistente politica industriale del governo Meloni“. I deputati M5S domandano le dimissioni del titolare del Mimit, accusando la premier di aver affidato un ministero chiave a “una figura assolutamente inadeguata“.
Di “desertificazione industriale” in Italia parla il responsabile Economia nella segreteria nazionale del Pd, Antonio Misiani, un “disastro” di fronte al quale qualunque governo correrebbe ai ripari. Nell’ultima legge di bilancio, denuncia l’esponente Dem, è stato “drasticamente tagliato non solo il fondo automotive (-75%) ma l’insieme delle risorse stanziate per le politiche industriali, che passeranno dai 5,8 miliardi del 2024 a 3,9 miliardi nel 2025 fino a 1,2 miliardi nel 2027“. Il parlamentare chiede che il governo riferisca in Parlamento per spiegare all’Italia cosa ha intenzione di fare.
L’Italia “non è il Paese delle meraviglie come vuoi farci credere“, tuona il co-portavoce di Europa Verde e deputato di Avs, Angelo Bonelli, rivolgendosi alla premier: “E’ il Paese in cui la produzione industriale cala a picco, in cui il caro energia mette in ginocchio le famiglie italiane e la disoccupazione giovanile aumenta. Basta propaganda, Giorgia Meloni, comincia a raccontare il Paese reale“.

ROBERTO CINGOLANI

Nucleare, spinta dal mondo produttivo. Cingolani: “Si può investire nella IV generazione”

Il nucleare resta il tema principale del dibattito sul futuro dell’energia. Il disegno di legge delega del governo è atteso in uno dei prossimi Consiglio dei ministri, ma già si accendono i riflettori del mondo politico, ma anche di quello produttivo.

In questa partita l’esecutivo può contare sull’appoggio di buona parte delle imprese, da tempo ormai impegnate in quella che un tempo sarebbe stata chiamata ‘l’arte dei salti mortali’ per resistere ai colpi del caro bollette. La parte più difficile – ma questo lo sanno bene dalle parti di Palazzo Chigi e del Mase – sarà semmai la campagna di comunicazione tra i cittadini per convincere gli italiani sull’utilità di inserire anche questa tecnologia nel nostro mix.

Già nelle sue vite precedenti, da professore e ministro dell’Ambiente, Roberto Cingolani è stato uno dei pochi a parlare di nucleare come fonte di approvvigionamento sicura, pulito e stabile, con impatti economici meno gravosi rispetto ad altre forme di energia. Oggi che è a capo di un colosso come Leonardo non ha di sicuro cambiato idea. Anzi: “Ho detto in tempi forse meno popolari che era la tecnologia che produceva meno anidride carbonica per unità di energia e aveva tutta una serie di altri parametri buoni”, ribadisce a margine della presentazione della Fondazione Leonardo Ets. Ma ora “tutti i Paesi stiano capendo che per accelerare la decarbonizzazione il nucleare va potenziato e credo che l’Italia si stia muovendo nella direzione di rivedere la sua posizione in materia”.

Leonardo, assieme a Enel e Ansaldo Energia sta dando vita a una newco che avrà il compito di approfondire la ricerca sul tema. Non c’è ancora la firma, ma Cingolani assicura “si sta procedendo, ci siamo scambiati l’ultima versione, l’accordo è quello, adesso dovremmo trovare il momento per chiudere”.

Il lavoro di questa nuova società potrebbe essere molto utile per le imprese. “La quarta generazione è quella che non fa utilizzo di Uranio 135 e in questo momento, secondo me, nella fase intermedia in attesa della fusione, potrebbe essere qualcosa su cui investire”, sottolinea infatti l’amministratore delegato di Leonardo. Mettendo l’accento sull’importanza di “costruire un percorso che ci porti da oggi alla fusione termonucleare, che sarà la soluzione per l’umanità in futuro. Che poi avvenga in tre decadi, in due decade o 5 decadi questo dipenderà da tante cose”.

Favorevole al nucleare, e non da oggi, è anche Davide Tabarelli. “In questo momento è la prima fonte di produzione in Europa, con circa il 25% e se venissero meno le 56 centrali saremmo messi malissimo: le bollette sarebbero molto più alte e di notte saremmo in blackout”, spiega il presidente di Nomisma Energia in audizione davanti alle commissioni riunite Ambiente e Attività produttive della Camera. Osando quella che lui stesso definisce una “provocazione”, cioè “cominciare a pensare di riaprire la centrale di Caorso, mettendoci un nuovo reattore, piccolo o grande o quello che stanno costruendo in Polonia”. Proprio per rendere chiara a tutti l’urgenza di riprendere un percorso.

Di cui è straconvinto, ovviamente, il presidente dell’Associazione italiana Nucleare, Stefano Monti, che aspetta lo schema di legge dal governo con ansia. Per essere precisi, sono i decreti attuativi il suo obiettivo principale: “In particolare, è molto importante avanzare rapidamente sulla questione dell’autorità di sicurezza e della comunicazione o è impossibile avviare un programma nucleare nel nostro Paese”.

Ue, Tridico (M5S): Crisi industriale sia priorità della nuova legislatura

Oggi c’è “una crisi comune a livello industriale in Europa. In particolare il settore automotive è colpito da una grave crisi e qui, a mio parere, l’Europa deve concentrare i maggiori sforzi, i maggiori investimenti. Vediamo come la trasformazione tecnologica, l’intelligenza artificiale, la digitalizzazione stiano avanzando velocemente”. Lo ha detto Pasquale Tridico, capodelegazione del Movimento 5 Stelle al Parlamento europeo, a margine dell’evento ‘Il sistema Italia nella nuova legislatura UE’, primo annual meeting di Connact, la piattaforma di eventi che favorisce il confronto tra soggetti privati e istituzioni attraverso momenti di incontro e networking, che si è svolto a Bruxelles.

Di fronte alla transizione ecologica e digitale, ha aggiunto, “gli Stati Uniti, i cinesi – partner e allo stesso tempo anche competitor importanti dell’Europa – le stanno affrontando con ingenti investimenti pubblici, con politiche pubbliche e importanti. Ecco io penso che la competitività europea, che certamente rimane il principale obiettivo per fronteggiare i giganti che sono nostri competitor, si possa e si debba a far crescere attraverso politiche pubbliche a partire da investimenti comuni”.

Durante il Covid, ha detto Tridico, “abbiamo affrontato la crisi in un modo comune, anche con investimenti pubblici e ne siamo usciti meglio. La crisi dell’industria e, in particolare, quella dell’automotive, a mio parere si può superare con un approccio europeo che finalizzi gli investimenti pubblici, anche attraverso gli Eurbond e quindi debito comune. Penso che sia una priorità per questa legislatura dell’Unione Europea”.

Adesso anche il Pd torna a occuparsi di industria? Domande alla segretaria Schlein

In una recente intervista al ‘Corriere della Sera’ Romano Prodi afferma che “l’industria italiana è in grave crisi così come quella tedesca, ma a differenza che in Germania da noi non se ne discute. Non lo fa neppure Confindustria”, e a proposito del Pd di Elly Schlein l’ex presidente della Commissione Europea afferma “non vedo grandi discussioni, a partire dalla direzione e dalla segreteria sulla politica industriale”.

Per la prima parte non mi sento di condividere le affermazioni di Prodi.

Mettere sullo stesso piano la situazione dell’industria tedesca con quella dell’industria italiana non tiene conto delle specificità del nostro sistema industriale, più volte richiamate su queste pagine, e in particolare della sua maggiore diversificazione e resilienza rispetto a quello della Germania, molto più concentrato su automotive e chimica, due settori oggi in grave crisi.

Non può invece essere in grave crisi almeno per ora un’industria manifatturiera come quella italiana, prevalentemente costituita da pmi a conduzione familiare, che è diventata la quarta in termini di esportazioni mondiali superando Giappone e Corea del Sud e che, in un momento di caduta generale della competitività dell’industria europea, mostra tutta la sua forza e il suo vantaggio competitivo fatto di intensità di lavoro delle famiglie proprietarie e dei loro collaboratori, di qualità dei prodotti, di design, bellezza, innovazione ecc.

Inoltre è ingeneroso dire che Confindustria non si occupa della situazione dell’industria nazionale e che non parla delle difficoltà che pure ci sono. La presidenza di Emanuele Orsini, fin dalle prime battute, ha posto con coraggio temi centrali per il futuro dell’industria europea e italiana e per la loro competitività, quali quelli del prezzo dell’energia e della necessità del nucleare di quarta generazione; delle distorsioni ideologiche del “green deal” che, se gestito come si è fatto fino ad oggi, rischia di trasformare la decarbonizzazione in desertificazione industriale; della crisi dell’automotive e della necessità di applicare il principio della “neutralità tecnologica”, che significa non cancellare i motori endotermici ma sviluppare accanto all’elettrico anche i biocombustibili e i combustibili sintetici; e così via.

La chiarezza e la forza del messaggio di Confindustria sono emersi nel trilaterale di Parigi di due settimane fa di cui ho parlato nel mio editoriale della settimana scorsa.

Prodi ha invece ragione quando dice che il Pd non parla da tempo di industria e di politiche industriali. E ciò stupisce non poco perché nella tradizione della sinistra italiana i temi dell’industria e del lavoro sono sempre stati storicamente centrali.

Negli ultimi giorni Elly Schlein, forse anche a seguito della critica di Prodi, ha dichiarato di volersi occupare di industria. Molto bene, ben tornati.

Le grandi questioni dell’industria europea e italiana, nel contesto del rapido cambiamento globale e di una sempre più serrata competizione con Stati Uniti d’America e Cina, richiedono un impegno generale non solo del mondo delle imprese e delle loro rappresentanze ma di tutte le forze politiche e sociali, senza il sostegno delle quali sarà difficile vincere le dure sfide che stanno dinanzi all’industria nel nostro continente.

C’è un problema di consenso su alcune questioni fondamentali e sulle cose da fare subito, perché tale consenso ancora non c’è. Il rapporto Draghi, al quale Von der Leyen dice di volersi ispirare per definire un Clean Industrial Deal nei primi 100 giorni del suo mandato, può aiutare nella ricerca di una linea condivisa.

Occuparsi di industria in maniera non astratta e non retorica significa entrare nel merito dei problemi e misurarsi con le contraddizioni e gli errori che sono stati compiuti dall’Europa negli ultimi vent’anni e che sono ascrivibili, come ho detto più volte, a un problema culturale, la “sindrome dei primi della classe”, con tutto il suo portato iper-regolatorio, di estremismo ambientalista e di fastidio nei confronti dell’industria, specie quella di base.

Tali errori hanno portato ad una situazione di grave crisi economica europea e di sempre maggiore gap con gli Stati Uniti d’America, in termini di PIL, di reddito pro-capite, di primato perduto nel valore aggiunto prodotto dall’industria, di ritardo nella ReS e nell’innovazione, di scomparsa delle grandi aziende europee nel ranking delle grandi imprese mondiali.

Siccome la segretaria del Pd dice di volersi occupare di industria, mi permetto di sottoporle una serie di punti e di questioni rispetto alle quali non si conosce la posizione del suo partito. Tali questioni dovrebbero invece costituire oggetto di una seria riflessione interna per giungere a posizioni chiare non solo del Pd ma di tutti i socialisti europei. Si tratta di problemi vitali per l’industria europea. Ecco un piccolo elenco.

1 – L’Europa è responsabile per il 7% delle emissioni mondiali di CO2. L’industria europea per meno della metà di questo 7%. Per contro, le emissioni di CO2 a livello mondiale stanno crescendo di anno in anno, perché le altre grandi aree economiche del mondo, a partire dagli Usa e dalla Cina, non si allineano alle politiche europee contro il climate change, dando così alle loro industrie un vantaggio competitivo enorme rispetto alle nostre. Che fare? Il Pd ritiene che si debba proseguire con l’estremismo ambientalista che ha caratterizzato l’era Timmermans o, senza disconoscere l’obiettivo strategico della decarbonizzazione, ritiene lo si possa perseguire con modi e tempi che non desertifichino industrialmente il nostro continente? In questo caso quali sono, secondo il Pd, le modifiche da apportare all’approccio europeo?

2 – L’era digitale, con la crescita dei Data Center e delle applicazioni di IA, avrà caratteristiche fortissimamente energivore. Le sole energie rinnovabili, seppure importanti, non saranno sufficienti a soddisfare il fabbisogno crescente di energia specie elettrica. Il Pd è favorevole al concetto di neutralità tecnologica? E cioè, per dirla alla Deng Xiaoping, ‘non è importante che il gatto sia bianco o nero, l’importante è che prenda il topo (in questo caso la CO2)’? Ciò significa essere consapevoli che le energie rinnovabili da sole non bastano e che per rispondere alla domanda crescente di energia e nel contempo decarbonizzare occorreranno tutte le altre tecnologie disponibili, quali il nucleare di quarta generazione, le carbon capture, i biofuel ecc. Il Pd è d’accordo? E in particolare, quale è la posizione del Pd sul nucleare di quarta generazione, SMR e microreattori?

3 – La promessa che i posti di lavoro creati dal green deal sarebbero stati molto superiori a quelli distrutti nelle industrie europee tradizionali si è rivelata, fino ad oggi, vana. In realtà l’Europa con il green deal ha creato una gigantesca occasione di business per la Cina, che è dominante in tutte le aree legate alla decarbonizzazione: dai pannelli solari, agli inverter, dalle pale eoliche al litio, alle batterie, alle auto elettriche. Ciò ha creato e creerà una nuova dipendenza strategica. Come evitare questa dipendenza? Le prime esperienze di ricerca di autonomia, ad esempio nella fabbricazione di batterie e pannelli in Europa, sono state spesso fallimentari. Quale è la posizione del Pd rispetto a questo rischio? A proposito di eventuali dazi che dovrebbero proteggere le auto elettriche europee dalla concorrenza sleale di quelle cinesi sovvenzionate dallo stato, Draghi scrive nel suo rapporto che in una giungla di carnivori gli erbivori rischiano la pelle. L’avvento di Trump e i suoi propositi di incremento dei dazi rendono la situazione ancora più difficile. Il Pd condivide il concetto espresso da Draghi? I due governi europei a guida socialista (quello tedesco e quello spagnolo) si sono dichiarati contro l’applicazione di dazi rinforzati alle auto elettriche cinesi.

4 – Un motore endotermico ha un indotto dalle 10 alle 12 volte superiore di quello elettrico. Solo in Italia sono a rischio 70.000 posti di lavoro nelle nostre fabbriche di subfornitura automobilistica. È favorevole il Pd a spostare in avanti la scadenza del 2035 per la messa al bando delle auto con motore endotermico? In molte nazioni europee, come Svezia e Germania, si pensa di riconvertire parte dell’industria automobilistica messa in crisi (anche) dal green deal in industria della difesa. Cosa dice il Pd al riguardo?

5 – Il sistema ETS, che ha creato il mercato delle quote di CO2 per le imprese emittenti gas climateranti con i loro processi industriali, non è mai stato sottoposto a un’analisi di impatto. Dopo 20 anni di funzionamento sarebbe il caso di fare uno studio oggettivo di cosa questo sistema ha dato e cosa ha tolto. Il Pd è favorevole alla proposta fatta due anni fa dal premier spagnolo Sanchez, e rifiutata dalla Commissione Europea, relativa alla estromissione dal mercato delle CO2 degli intermediari finanziari, banche di affari e fondi, che speculano sulle quote che gli industriali devono acquistare, facendone sovente esplodere il prezzo?

6 – Il Pd è favorevole ad una revisione del CBAM (il meccanismo di dazio ambientale introdotto nel tentativo di proteggere l’industria europea dalle industrie di altre parti del mondo non sottoposte a tasse carboniche)? Tale sistema da un lato è insostenibile soprattutto per le pmi per la sua complessità e macchinosità; dall’altro a partire dal 2027-2030 eliminerà le quote gratuite di CO2 per le imprese hard to abate. Ciò significherà la chiusura della siderurgia da alto forno, di pezzi importantissimi di chimica, di tutta la ceramica, dell’industria del vetro, delle fonderie, della carta. Il Pd e il gruppo socialista al Parlamento europeo pensano di fare qualcosa per impedire questo disastro?

7 – A causa dell’iper-regolamentazione e delle politiche del green deal l’Europa, nonostante sia ancora il mercato più grande e ricco del mondo, ha perso progressivamente attrattività per gli investimenti esteri. Le imprese extra-europee sono sempre più restie ad investire in Europa. Non solo, assistiamo al fatto che sempre più industrie e industriali europei pensano di investire e crescere fuori dall’Europa, negli USA in particolare. Cosa si deve fare secondo il Pd per ridare attrattività agli investimenti esteri in Europa, che spesso significano innovazione e occupazione?

8 – Il Pd è favorevole ad un’industria europea della difesa, premessa indispensabile per politiche comuni della difesa in Europa? Il Pd è favorevole, a questo fine, a portare la spesa militare italiana al 2% del PIL come da impegni internazionali?

9 – L’occupazione è cresciuta molto in Italia negli ultimi anni specie nella forma di contratti a tempo indeterminato. Il tasso di disoccupazione in Italia, ci dice l’Istat, è il più basso da molto tempo. L’industria italiana ha un enorme problema quantitativo e qualitativo di mano d’opera. Si calcola che ci siano 400.000 posti di lavoro non coperti. Per questo le imprese cercano in ogni modo di fidelizzare il rapporto con i propri collaboratori. Non ritiene il Pd che porre il tema in termini di salario minimo e lotta alla precarietà non colga le vere questioni che attengono al mercato del lavoro per l’industria? Perché si è promosso un referendum contro il Jobs Act, misura adottata da un Governo a guida Pd, che attraverso meccanismi flessibili ha creato più di 1 milione di posti di lavoro ed è stato molto gradito dall’industria italiana? Perché non si è lavorato sulla parte centrale e più strategica del provvedimento, che è quella relativa alla formazione e riqualificazione dei lavoratori?

10 – Il meccanismo del 5.0, che ha a disposizione oltre sei miliardi per la transizione energetica e digitale dell’industria italiana, è praticamente bloccato per la complessità applicativa dovuta all’incrocio tra regole italiane e regole europee. Cosa dice il Pd al riguardo?

11 – Il Pd è favorevole alla proposta di Confindustria di un’IRES premiale per le imprese che trattengono gli utili in azienda e ne reinvestono una parte consistente in innovazione e formazione del capitale umano?

Si tratta di questioni cruciali per il futuro dell’industria italiana ed europea.

Sarebbe interessante avere la posizione ufficiale del Pd su ciascuna di esse, tanto per comprendere, al di là delle parole, la reale disposizione di quel partito nei confronti dell’industria.

Si rafforza asse Italia-Germania. Urso: “Dazi Usa? Serve una politica industriale europea”

(Foto: Mimit)

Un anno fa la firma del Piano d’azione italo-tedesco, oggi il primo forum interministeriale inquadra il campo di azione e i target da raggiungere. La missione a Berlino del ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, rafforza la cooperazione con Roma, come testimonia la dichiarazione congiunta al termine dei lavori con il vicecancelliere e ministro dell’Economia e dell’Azione Climatica della Germania, Robert Habeck. La parola d’ordine è competitività, che l’Europa deve assolutamente ritrovare, colmando anche un forte ritardo. E’ necessario, soprattutto adesso che la situazione geopolitica continua a essere instabile, con le guerre in Ucraina e Medio Oriente, e gli Usa che si apprestano cambiare non solo Amministrazione, col passaggio da Joe Biden a Donald Trump, ma soprattutto approccio alla politica industriale. I dazi verso l’Europa annunciati dal tycoon in campagna elettorale sono un tema più che mai stringente.

Non sarà certo la prima volta, ricorda proprio Urso, citando la prima presidenza Trump, poi la successiva Biden: “E’ chiaro a tutti che dobbiamo fare una politica positiva nei confronti degli Stati Uniti, che è il nostro principale alleato anche dal punto di vista economico, per fare in Europa una saggia, significativa, responsabile comune politica industriale che si fondi sull’autonomia strategica, a cominciare dall’energia, per poi giungere anche, come necessario, alla tutela nelle regole del Wto da chi fa concorrenza sleale”. La parola d’ordine è agire insieme.

In questo senso l’Ue ha una carta da giocarsi: l’avvio della nuova Commissione a guida di Ursula von der Leyen. “Bisogna puntare con ambizione sullo sviluppo tecnologico, come l’Intelligenza artificiale, a partire dall’energia, anche con un mercato comune energetico, con tutto quello che può garantire l’autonomia del Continente e del sistema industriale”, dice Urso. Habeck ascolta e condivide, in particolare quando il responsabile del Mimit parla del report di Mario Draghi, “che noi tutti condividiamo appieno”, augurandosi, “anche a fronte del dinamismo di altri attori globali come Cina e Usa”, una “azione comune tra le due grandi politiche industriali d’Europa per indirizzare la nuova Commissione sulla strada della competitività”. Sul fronte degli investimenti, che l’ex premier calcola in circa 800 miliardi in più all’anno per i prossimi 10 anni solo per recuperare il gap, alla necessità di favorire l’ingresso di capitali privati nei progetti. In questo senso diventa, dunque, fondamentale un’opera di “semplificazione e sburocratizzazione” in Europa.

“Serve mettere in campo una politica industriale, capace di riportare il nostro sistema al centro delle grandi catene produttive globali, così come indicato nei report Draghi e Letta, investire sulle nuove tecnologie, restituire competitività alle imprese, tutelare il lavoro europeo”, ripete Urso anche nella nota congiunta con il collega tedesco. Per questo la cooperazione in campo industriale tra Italia e Germania è “assolutamente strategica”. Ad esempio con il non-paper sull’automotive che sarà presentato al Consiglio Competitività dell’Ue giovedì prossimo, 28 novembre, cui ha aderito anche la Polonia. “È necessario rivedere con realismo le regole del Cbam e realizzare un piano automotive europeo che metta in campo anche risorse comuni per sostenere gli investimenti delle imprese con una visione di piena neutralità tecnologica al fine di raggiungere davvero la autonomia strategica del Continente nella twin transition”, aggiunge il ministro italiano.

Allo stesso tempo occorre una nuova visione sul comparto siderurgico e chimico, come sostenuto anche al Trilateral Business Forum di giovedì e venerdì scorsi, a Parigi, tra le confindustrie di Italia, Germania e Francia.

In questo senso, il Piano d’azione tra Roma e Berlino è ad ampio raggio e prevede una cooperazione rafforzata in diversi settori della politica industriale, dello spazio, delle tecnologie digitali e green. I gruppi di lavoro già composti sono un’ottima base di partenza per le proposte. Ad esempio, su politica industriale ed energia “è stata definita un’agenda comune per la prossima Commissione Ue, affrontando temi come il sostegno alle pmi e la semplificazione normativa, attraverso “reality checks”, e la rimozione delle barriere ai servizi transfrontalieri”, mettono in chiaro i due ministri. Ancora, il fulcro della collaborazione su ‘digitalizzazione e Industria 4.0’ è “lo sviluppo di ecosistemi decentralizzati per la produzione intelligente e il rafforzamento della posizione italiana nell’iniziativa Manufacturing-X” con la partecipazione italiana alla Fiera di Hannover 2025 “tra le priorità”. Infine, sullo spazio i due Paesi hanno lavorato “per garantire che la legislazione europea rifletta gli interessi degli Stati membri, promuovendo la competitività del settore e la sovranità strategica” e “la cooperazione sul programma Iris2 è stata parte integrante delle attività”. La partita è, dunque, aperta. Ma perché abbia successo serve l’Europa. Unita anche negli obiettivi, possibilmente.

G7 Industria, 10/10 secondo vertice a Roma. Urso: Lavoriamo a sicurezza settori strategici

Africa, intelligenza artificiale, catene di approvvigionamento al centro della seconda ministeriale ‘Industria e Innovazione tecnologica’, il 10 ottobre a Roma.

Il vertice tira le somme di un percorso svolto nel corso dell’anno di presidenza italiana del G7, dal quale “emerge quanto importante sia l’industria, in questo contesto difficile e in evoluzione”, spiega Adolfo Urso presentando il summit.
Nella dichiarazione di Verona i Paesi del G7, ricorda il ministro, “hanno concordato sulla necessità di unire competizione e coordinamento per le catene del valore” e riflette: “I Paesi dell’Occidente devono ragionare su sicurezza e affidabilità in settori considerati strategici, come i semiconduttori, l’Ia, le infrastrutture di interconnessione”.

Nella ministeriale di Roma non si farà solo il punto sui risultati raggiunti dallo scorso marzo, ma si porterà la discussione in avanti.
La prima sessione in programma è sullo sviluppo digitale, per rafforzare la catena del valore tra i paesi del G7 e dell’Africa.
La Presidenza italiana del G7 e l’Undp stanno lavorando alle ultime fasi in vista del lancio dell’AI Hub per lo Sviluppo Sostenibile, che mira a rafforzare gli ecosistemi locali di Ia all’interno dei Paesi africani e accelerare l’innovazione e i partenariati nel settore privato. L’hub aprirà nel 2025 e avrà sede in Italia. Al centro della discussione, le possibili collaborazioni tra i Paesi del G7 e quelli africani per la diffusione dell’Ia nei processi produttivi. Nel corso della sessione, interverranno i rappresentanti di quattro startup africane con Nasrallah Hassan, Co-Founder di Birrama (Etiopia), Tonee Ndungu, Ceo di Kytabu (Kenya), Marouen Hammami, Cto di IrWise (Tunisia), Karim Beguir, Ceo di InstaDeep (Tunisia). Affianco alle startup, interverranno i rappresentanti di alcune grandi aziende, nazionali e multinazionali, che presenteranno ipotesi progettuali da far confluire all’interno dell’Hub: Julien Groues, vice president di Amazon Web Services; Maximo Ibarra, Ceo di Engineering; Farrukh Hussain, Investment Director di Sony Group.

Nella seconda sessione si valuterà la politica industriale come strumento per rispondere a una nuova era di sfide globali. A Verona si era affermata la necessità di lavorare a 7 attraverso la costituzione di un Punto di Contatto sui Semiconduttori dedicato a scambiarsi informazioni e buone pratiche nel settore, per aumentare il coordinamento tra i Sette e rendere questa catena più resiliente, affidabile e colmarne le vulnerabilità. La sessione vedrà i ministri discutere il lavoro del Punto di Contatto e i risultati ottenuti su: come coordinarsi sulla ricerca industriale precompetitiva per garantire che i nostri settori critici rimangano innovativi come richiede la concorrenza globale; come coordinarsi in caso di crisi negli approvvigionamenti; come far fronte alle politiche e pratiche non di mercato. La sessione discuterà anche di come il lavoro svolto sui semiconduttori sia o meno applicabile ad altre filiere interessate da simili dinamiche. Alla riunione, rivolta ai soli rappresentanti governativi, parteciperanno anche i rappresentanti di Paesi Bassi e Repubblica di Corea.

Nella terza sessione, si discuterà di come favorire l’adozione dell’Ia nelle aziende. Il ministro Urso presenterà il Rapporto predisposto dalla Presidenza italiana sulla diffusione dell’Ia nei processi produttivi delle micro, piccole e medie imprese. Perché ci sono alcuni settori, come le tecnologie emergenti (ad esempio l’intelligenza artificiale), in cui le catene di approvvigionamento stanno appena iniziando a svilupparsi. La sessione si propone quindi di discutere come ciascuno dei membri del G7 stia affrontando il tema individualmente, quali azioni si stanno promuovendo e come si potrebbe lavorare per promuovere una visione comune delle filiere tecnologiche emergenti.

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Assemblea Federacciai, Gozzi: “Obiettivo acciaio green al 2030 ma Ue volti pagina”

“Ci appelliamo al Governo italiano, al neo Commissario europeo Raffaele Fitto, a cui facciamo i più fervidi auguri di buon lavoro, alle grandi famiglie politiche: popolari, socialisti, liberali e conservatori affinché si faccia il bilancio di questi anni, si intervenga sulle politiche sbagliate nei tempi e nei modi (come è stato nel caso della decarbonizzazione) o assenti del tutto (come è stato nel caso delle politiche industriali e dell’energia) per voltare pagina mettendo l’industria al centro. Perché senza industria, anche quella tradizionale e di base, non c’è Europa”. Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, lancia l’allarme per la siderurgia italiana, colpita da una serie di problemi, in primis le norme green europee che rischiano non solo di mortificare il settore continentale, in particolare quello italiano, ma soprattutto l’intera industria a vantaggio di aree del mondo che le regole ambientali nemmeno le rispettano.

L’intervento di Gozzi durante l’assemblea di Federacciai a Vicenza ha lo sguardo che va oltre il 2030, perché in realtà, nel 2023, l’industria siderurgica italiana ha prodotto 21,1 milioni di tonnellate di acciaio, segnando una riduzione del 2,5% rispetto al 2022, ma mantenendo un fatturato significativo, stimato tra i 50 e i 60 miliardi di euro all’anno. La produzione di laminati a caldo ha registrato una flessione dell’1,5%, mentre i laminati lunghi, principalmente utilizzati nell’edilizia, hanno subito una contrazione del 2,6%. Al contrario, i laminati piani, impiegati nei settori automotive, meccanico ed elettrodomestico, hanno mantenuto una produzione stabile.

Il problema principale è quello dell’energia. Tuttavia, le imprese italiane continuano a fronteggiare sfide significative legate ai costi energetici. Nel 2023, le aziende energivore tedesche hanno pagato in media 65 euro/MWh per l’energia elettrica, mentre in Italia i costi superavano i 110 euro/MWh. Questa disparità genera un notevole svantaggio competitivo per il made in Italy a causa del mix energetico nazionale e della mancanza di un mercato elettrico interconnesso a livello europeo. Gozzi ha sottolineato come il sistema del “marginal price” unifichi il costo dell’energia da fonti rinnovabili e idrocarburi, aggravando ulteriormente il problema. Federacciai ha proposto un approccio unificato per l’utilizzo dei proventi d’asta ETS, ovvero le quote di carbonio compensative, evidenziando come paesi come Germania e Francia abbiano investito molto di più dell’Italia nella decarbonizzazione industriale. Un prezzo unico europeo per i settori ad alta intensità energetica – è l’auspicio di Federacciai – potrebbe aiutare a ridurre queste differenze.

Gozzi chiede una svolta normativa perché, se si parla di sostenibilità, l’elettrosiderurgia italiana è già prossima alla neutralità carbonica per quanto riguarda le emissioni dirette. Tuttavia, restano alcune problematiche legate alle piccole emissioni residue dai forni elettrici e dall’uso di gas naturale nei forni di riscaldo dei laminatoi. Per affrontare queste sfide, il settore sta esplorando soluzioni come il biometano e l’idrogeno. Il presidente di Federacciai evidenzia che l’energia elettrica acquistata dalla rete riflette il carbon footprint della produzione nazionale e solo un terzo proviene da fonti rinnovabili. Per raggiungere l’obiettivo del “net zero” o addirittura diventare “carbon negative”, sarà necessario un ulteriore terzo di energia elettrica a zero emissioni di carbonio. Molte aziende hanno già investito in impianti per la produzione di rinnovabili e stanno considerando di partecipare, sia singolarmente che in consorzio, alle gare per il rinnovo delle concessioni idroelettriche, auspicando che vengano bandite al più presto in conformità alle direttive europee.

Il globalismo mercatista non sa proteggere l’industria europea

L’annunciata possibile chiusura di stabilimenti di produzione della Volkswagen in Germania appare come il simbolo della crisi profonda in cui versano molti settori dell’industria europea (l’automotive è uno di questi) per troppo tempo maltrattati dalle politiche dell’Unione.

Per i tedeschi la vicenda è uno shock: sarebbe la prima volta in 87 anni di storia che il colosso automobilistico chiude una sua fabbrica in patria.

La ragione delle ventilate chiusure è, secondo l’AD di Volkswagen Olivier Blume, che “la Germania come sede di produzione di auto sta perdendo terreno in termini di competitività, e che il clima economico è diventato ancora più difficile, e nuovi operatori stanno entrando in Europa”.

Il tema della perdita di competitività dell’Europa e della sua industria, e del gigantesco gap di crescita nei confronti di altre aree economiche forti del mondo (Usa e Cina innanzitutto), si impone con brutalità nel dibattito sul futuro della nostra economia e del nostro modello sociale; e richiama i gravi errori commessi dall’Unione Europea negli ultimi 20 anni.

Abbiamo la speranza che l’Europa si interroghi con umiltà su questi errori e che cerchi realisticamente di porvi rimedio.

È di questi giorni la notizia che settori maggioritari della CDU, colpiti dalla vicenda Volkswagen e dall’esito delle elezioni in Turingia e Sassonia, chiederebbero di rivedere in sede europea la scadenza del 2035 per l’eliminazione delle auto con motore endotermico. Questo della messa al bando dei motori endotermici è un perfetto esempio dell’estremismo ideologico ambientalista che ha permeato le decisioni dell’Unione, e che è stato subìto e poco contrastato anche dalle case automobilistiche europee, che avevano una leadership a livello mondiale proprio su questo tipo di motori.

La crisi è così grave da aver indotto Ursula Von der Leyen a commissionare a Mario Draghi uno studio proprio sul recupero di competitività; studio che è stato presentato proprio in questi giorni e che, a tratti, ha accenti drammatici.

Ma del lavoro di Mario Draghi ci occuperemo nel prossimo numero di PL.

Oggi ci interessa approfondire il tema, comunque connesso alla tenuta dell’industria europea, della sua protezione tramite diverse misure compresi i dazi.

Storicamente l’Unione Europea è stata l’area del mondo più aperta al commercio internazionale, nella quale i principi di libero scambio e dell’apertura totale, così come quello della limitazione all’intervento dello Stato in economia, sono stati costitutivi dell’Unione stessa.

Da più parti, alla luce tanto della performance di crescita così modesta dell’economia europea negli ultimi venti anni quanto della conclamata crisi di interi settori industriali esposti alla competizione internazionale, si chiede oggi di rivedere quei principi ritenendoli non più adeguati alla fase che stiamo vivendo.

Il ragionamento che viene fatto è più o meno il seguente: le due grandi economie che hanno sopravanzato l’Europa in termini di crescita e innovazione nei settori di punta come IA, biotecnologie, farmaceutica ecc., cioè Stati Uniti d’America e Cina, non declinano i principi del libero scambio e del non intervento dello Stato in economia ma, al contrario, sono caratterizzate da forti politiche protezionistiche a difesa delle industrie interne (USA) e da un forte intervento dello Stato: in USA attraverso la spesa militare, in Cina attraverso le sovvenzioni gigantesche a quasi tutti i settori industriali. Se si guardano i loro risultati in termini di crescita del PIL, dell’occupazione e della leadership tecnologica questa impostazione sembrerebbe molto più efficace di quanto non siano le politiche europee di libero scambio e di non intervento dello Stato in economia.

A questa tendenza critica nei confronti dell’impostazione di politica economica e industriale dell’Unione, che ritiene sempre più necessario un cambio di passo e che guarda alle protezioni come strumenti necessari nelle condizioni date, si oppongono correnti politiche e di pensiero che sostengono e sottolineano i benefici della globalizzazione e dei mercati aperti.

Questa seconda visione si rifà alla ‘mano invisibile’ di Adam Smith (per cui l’interazione sul libero mercato degli agenti economici, ciascuno mosso soltanto dal proprio self interest, determinerebbe il massimo benessere per l’intera collettività) e alla teoria dei ‘vantaggi comparati’ di Ricardo (per cui ogni paese può trarre vantaggio dal commercio internazionale perché lo stesso favorisce a specializzazione produttiva, garantisce una maggiore produzione a livello mondiale e consente un miglioramento del tenore di vita delle popolazioni) e sostiene con forza la tesi che l’Europa non debba infilarsi in una spirale protezionistica ma debba continuare ad essere il più grande presidio mondiale dell’apertura dei mercati.

Come industriale ed esponente di Confindustria, spesso mi si chiede di esprimere la mia opinione in materia, anche perché in questi anni non ho lesinato forti critiche ad un’impostazione europea che non ha messo l’industria al centro.

La mia opinione è che il tema vada affrontato con spirito pragmatico, tenendo conto delle condizioni reali in cui si trovano l’economia e l’industria europee e ricordando sempre che anche le teorie economiche sono figlie della storia e rispecchiano quindi le diverse fasi e i diversi interessi degli attori in campo.

Ovviamente per un paese esportatore come l’Italia (nel 2023 l’industria manifatturiera italiana ha fatturato 1200 miliardi di euro ed ha esportato per 670 miliardi di euro; e nei primi sei mesi del 2024 abbiamo probabilmente superato il Giappone in quanto a esportazioni) un’impostazione favorevole al commercio e agli scambi internazionali è obbligatoria. Tra l’altro essendo l’Italia un Paese senza materie prime importiamo anche moltissimi beni primari, semiprodotti e componenti, che vengono interiorizzati nei nostri manufatti. Da una chiusura dei commerci internazionali trarremmo solo danni.

Allo stesso tempo anche l’industria italiana vede interi settori di base (posso citare quello della ceramica e delle piastrelle perché è un caso emblematico) esposti alla concorrenza internazionale e fortemente danneggiati e spiazzati: dall’alto costo dell’energia che penalizza l’Europa rispetto alle altre aree del mondo concorrenti; dalle insensate modalità con cui nell’era Timmermans l’Europa ha condotto le politiche di decarbonizzazione; e dalla lentezza con cui fino ad oggi l’Unione Europea ha gestito le pratiche di antidumping e di contrasto alla concorrenza internazionale sleale.

Questi settori rischiano di scomparire non per loro inefficienza ma per condizioni al contorno penalizzanti.

Non parliamo poi di quando, come nel caso delle auto elettriche, i concorrenti (Cina innanzitutto) sono sovvenzionati dallo Stato e riescono a essere competitivi in maniera sleale perché appunto favoriti da sussidi e aiuti pubblici. La sovracapacità produttiva cinese, estesa a quasi tutti i settori dell’industria manifatturiera, e la decisione del Governo di Pechino di non rallentare mai le produzioni, neanche nei momenti di crisi, cercando sbocchi nelle esportazioni sostitutive della domanda interna che non beve, costituisce, e costituirà sempre di più in futuro, un gigantesco fattore di destabilizzazione dell’economia mondiale. Il tasso di statalizzazione dell’industria cinese sta crescendo velocemente per scelta politica e quindi la competizione sarà sempre più viziata e distorta.

Se non si interviene con forti misure di protezione, ad esempio per il comparto automobilistico e per altri settori dell’industria europea, questi sono destinati a sparire in pochi anni, con tutte le conseguenze economiche e sociali del caso. Lo stesso Draghi nel suo rapporto sostiene la necessità di questa protezione.

Sempre Draghi per giustificare questo approccio di protezione di taluni settori industriali ha affermato, con efficace metafora, che in una giungla abitata da animali carnivori è difficile sopravvivere essendo erbivori.

Un’altra considerazione che mi sento di fare è quella relativa ad un quadro geo-politico in forte cambiamento all’interno del quale l’Occidente, che difende libertà e democrazia, deve fare i conti con economie e Paesi autocratici, teocratici, dittatoriali, neo-imperialisti che hanno come obiettivo la sconfitta dell’Occidente e dei suoi valori.

È il tema che va sotto il nome di de-risking, che significa che il commercio internazionale non può diventare uno strumento per mettere a rischio i livelli di sicurezza delle nostre democrazie. Ovviamente ciò vale soprattutto per le forniture militari, ma anche per l’elettronica, le biotecnologie, l’aereospazio ecc.

In questa nuova situazione dobbiamo abituarci a pensare ad aree di libero scambio tra Paesi amici, che condividono gli stessi valori e interessi, e a una maggiore cautela negli scambi con chi non perde occasione per attaccare l’Occidente.

Ciò complica ancora di più il quadro e ci fa capire come si devono usare contemporaneamente, e in misura mirata, strumenti di protezione e di apertura ai mercati calibrando attentamente il peso e la portata degli interventi. E ciò lo si deve fare senza ideologismi ma con tanto pragmatismo.

Si tratta di un esercizio difficile e sofisticato che l’Europa finora non è stata in grado di fare.

C’è un caso recente che spiega bene il concetto e mostra gli errori compiuti anche in tempi recenti dalla Commissione e la sua incapacità a capire il nuovo: durante la sua presidenza Trump introdusse un sistema di dazi a protezione dell’acciaio e dell’alluminio americani. L’UE giustamente ha protestato a lungo contro questa misura ritenendola incompatibile con le regole del Wto (l’Organizzazione del Commercio Internazionale), regole che per la verità solo l’Europa rispetta.

Il Presidente Biden, per venire incontro alle lamentele europee, ha aperto un negoziato con l’UE proponendo un’area di libero scambio fatta da Usa, Canada, Messico, UE, Corea del Sud, Giappone e Australia nella quale questi dazi su acciaio e alluminio non sarebbero più esistiti, a condizione di mantenere la protezione daziaria nei confronti della Cina.

L’Europa, per ragioni ideologiche e probabilmente per il terrore tedesco ogni volta che vengono ventilate misure nei confronti della competizione sleale della Cina, ha rifiutato la proposta di Biden, così oggi i dazi americani sull’acciaio e l’alluminio sono ancora lì, e ancora la siderurgia europea non riesce a esportare un Kg di acciaio negli Usa.

Ciò che facciamo fatica a far capire alla politica e alla tecnocrazia comunitaria, intrise di ideologia globalista e mercatista, è che i cambiamenti vanno governati e che senza attenzione all’industria e alla sua sopravvivenza ben presto anche il modello sociale europeo di cui siamo tanto orgogliosi non esisterà più. I ceti sociali più deboli, non sentendosi protetti, si rivolgono al populismo e alla protesta estrema e anche per questo le nostre democrazie saranno in pericolo.

Lo sbandamento politico di Francia e Germania deve fare riflettere al riguardo.

Industria, a luglio produzione -3,3% annuale: crolla tessile (-18,3%)

Nell’infografica INTERATTIVA di GEA, la produzione industriale in Italia per settori. Secondo Istat, a luglio l’indice complessivo diminuisce in termini tendenziali del 3,3%: i settori di attività economica che registrano gli incrementi tendenziali maggiori sono la fabbricazione di prodotti chimici (+3,9%), le industrie alimentari, bevande e tabacco (+2,5%) e la fornitura di energia elettrica, gas, vapore ed aria (+1,9%). Le flessioni più ampie si registrano nelle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-18,3%), nella fabbricazione di mezzi di trasporto (-11,4%) e nell’attività estrattiva (-5,9%).