Rigenerazione urbana, Camera-Cresme: “Rivedere modello risorse, mix pubblico-privato”

La rigenerazione urbana è un concetto ormai sedimentato nella cultura di ogni comunità. Eppure “ad oggi non trova una compiuta definizione nell’ordinamento nazionale”, pur essendo presenti “numerosi riferimenti nella legislazione statale e definizioni non sempre convergenti in numerose leggi regionali”. A sottolinearlo è un’analisi che porta la firma del Servizio studi della Camera dei deputati in collaborazione con il Centro ricerche economiche sociali di mercato per l’edilizia e il territorio (Cresme), su richiesta della commissione Ambiente, territorio e lavori pubblici di Montecitorio, che si compone di due parti e 8 capitoli tematici. I dati che emergono tracciano un quadro completo della situazione, portando a galla le criticità da risolvere per avere un risultato omogeneo e produttivo, mettendo a disposizione del legislatore gli strumenti utili a capire dove focalizzare gli interventi.

Prima, però, è utile capire la base di partenza. Perché se “in termini generali, in letteratura e nel dibattito pubblico, per rigenerazione urbana si fa riferimento ad un insieme di programmi di recupero e riqualificazione del patrimonio immobiliare e degli spazi su scala urbana volti a garantire, tra l’altro, la qualità dell’abitare sia dal punto di vista ambientale sia sociale, con particolare riferimento alle aree urbane e alle periferie più degradate”, la nozione di rigenerazione urbana diviene “un paradigma trasversale ad una pluralità di politiche pubbliche aventi ad oggetto la tutela dell’ambiente e del paesaggio, in particolare attraverso il contenimento del consumo di suolo”, con cui “compone un binomio inscindibile”.

Una delle criticità riscontrate dallo studio è quello della concorrenza tra normative centrali e quelle locali. “Dal complesso panorama normativo in materia sembra emergere una tendenza – più marcata nella legislazione regionale e affermata solo in modo incidentale e incompiuto nella legislazione statale – favorevole a considerare le pratiche della ristrutturazione e della sostituzione edilizia, attraverso la demolizione e ricostruzione di edifici, secondo criteri di maggiore sostenibilità energetica, ambientale e urbanistica, quale asse a partire dal quale innestare più estesi interventi di rigenerazione urbana”, sottolinea il documento. Senza dimenticare che ogni passaggio deve essere in compliance con le decisioni assunte in sede europea: in particolare la bussola è, e resta, l’Obiettivo 11 dell’Agenda 2030 dell’Onu, che fissa il traguardo di città e comunità urbane sostenibili, più durature, ed efficienti. In cui “tutti possano avere accesso ai servizi di base, all’energia, all’alloggio, ai trasporti e molto altro”, oltre ad ancorare il consumo di suolo alla crescita demografica.

Alla rigenerazione urbana è legato anche un altro tema, quello della crescita, ma soprattutto della produttività del sistema economico. Che lo studio condotto da Camera e Cresme individua come “il risultato dell’efficienza delle determinanti settoriali di un’economia nazionale, ma è anche il risultato di quelle che potremmo definire determinanti territoriali, insediative, che lo caratterizzano”. Argomenti trattati a più riprese dall’Ocse, ma anche dalla Banca d’Italia, che in diversi studi ha descritto il legame tra crescita aggregata e città, mettendo in evidenza sia l’importanza sia le criticità delle città italiane: “In tutte le economie avanzate, da alcuni decenni – riporta via Nazionale – le aree urbane mostrano tassi di crescita della popolazione superiori a quelli delle aree non urbane”. Dunque, secondo i dati Ocse, scrive ancora Bankitalia, “la produttività del lavoro è del 10% più elevata rispetto alla media nazionale e questo vantaggio è rimasto sostanzialmente invariato nell’ultimo quindicennio, tuttavia non è cresciuta come nei principali Paesi europei”.

Elementi che inducono a pensare nuove soluzioni, sfruttando anche le best practices delle comunità occidentali. Ad esempio come quella che si è sviluppata in Francia negli ultimi anni, la ‘Città dei 15 minuti’, che ha trovato uno slancio definitivo durante il periodo della pandemia. In poche parole, si tratta di valutare “il tempo di spostamento a piedi” per raggiungere i luoghi utili alla quotidianità “come parametro fondamentale alla base della pianificazione urbana”. In Italia il tema è stato introdotto anche dal neo sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, durante la campagna elettorale dello scorso anno.

La seconda parte dello studio Camera-Cresme, poi, muove dalla constatazione del radicale cambio di paradigma della sfida urbana tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, fino ad arrivare alle riflessioni sulla possibilità di considerare gli incentivi fiscali per il recupero e la riqualificazione energetica del patrimonio edilizio o quali elementi di un più integrato sistema di interventi di trasformazione delle aree urbane. Dunque, “la sfida della rigenerazione urbana si qualifica come obiettivo sistemico al cui raggiungimento sono chiamate a concorrere numerose politiche pubbliche settoriali da coordinare in un quadro coerente e strategico di interventi”. Soprattutto sfruttando tutte le risorse messe a disposizione, di cui il Pnrr è una parte consistente ma non l’unica. Secondo l’analisi, nel prossimo lustro “è da tenere in considerazione il complesso quadro degli investimenti in opere pubbliche avviati con la programmazione nazionale ordinaria e, per rimanere nel quadro europeo, i fondi strutturali e i fondi di coesione sociale, oltre agli incentivi fiscali per il recupero edilizio”. Secondo un recente documento redatto dal Cresme, infatti, la stima è di “circa 310 miliardi di euro le risorse disponibili tra il 2021 e il 2027 considerando il Pnrr, il Fondo complementare al Pnrr, React-Eu e i fondi Fsre e Fse”.

Un altro elemento di fondamentale importanza, evidenziato dallo studio Camera-Cresme è l’interazione proattiva di investimenti pubblici e privati. “Se si lavorasse per innescare un virtuoso ciclo di investimenti privati, le potenzialità dell’impatto economico crescerebbero significativamente, così come la possibilità di far fare un salto competitivo al sistema economico del nostro Paese”, sottolinea il documento. Facendo notare che “le esperienze europee di rigenerazione urbana insegnano che nelle città gli investimenti privati in partnership con quelli pubblici possono avere un effetto moltiplicativo di grande rilievo, e con molti meno rischi di quelli dimostrati nei progetti riguardanti le grandi infrastrutture a rete”. Perché “le città sono per loro natura un mix di beni pubblici e beni privati, di infrastrutture pubbliche e private, di investimenti pubblici e privati, di interessi pubblici e privati che possono essere portati a sistema e valorizzati all’interno di nuovi strumenti di intervento”.

Tirando le somme dell’analisi, l’obiettivo è sviluppare una proposta riguardante i temi della rigenerazione urbana che tenga conto delle dinamiche in atto, delle risorse in gioco e degli obiettivi che l’Unione europea e l’Italia si sono date in termini di sviluppo sostenibile”. Il tutto in una prospettiva di “possibile revisione degli incentivi vigenti”, utilizzando la leva fiscale, attualmente adoperata in modo diffuso, “mirandola agli interventi di rigenerazione urbana”, tenendo presente le indicazioni europee e i programmi avviati con il Pnrr per le aree metropolitane, per “ricondurre queste risorse a sistema” con quelle del Piano nazionale di ripresa e resilienza e gli altri fondi Ue, integrandole con possibili investimenti privati, nel quadro di una strategia complessiva.

Dunque, si legge nella parte relativa alle proposte, “se, prudenzialmente, nel periodo 2022-2027, continuassero gli incentivi con le modalità pre-2020 e i livelli rimanessero quelli sperimentati dal 2013 al 2019, sostenuti dagli incentivi del 50% e del 65%, verrebbero destinati al recupero edilizio e alla riqualificazione energetica mediamente 28 miliardi di euro all’anno”. Tutto questo considerando “la stagione del Superbonus 110% come temporanea”. Ecco perché non solo è possibile considerare il quadro generale delle risorse come parte della quota di cofinanziamento che l’Italia deve mettere in gioco per attivare i fondi strutturali e di coesione europei, ma “si dovrebbe sviluppare un nuovo modello di intervento in grado di mettere insieme risorse pubbliche, investimenti privati di dimensione significativa e investimenti privati diffusi che, mantenendo e anzi moltiplicando l’impatto degli interventi in termini economici e occupazionali”, nel solco dei principi dello sviluppo sostenibile, riduzione e resilienza all’impatto climatico, transizione digitale, territorializzazione dei servizi e qualità dell’abitare.

(Photo credits: STR/AFP)

Nadia Bisson

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