“In Italia, non solo crescono 50.000 ettari di nuovi boschi ogni anno, ma quelli esistenti hanno accumulato in 30 anni oltre il 30% in più di massa vivente: legno, foglie, radici”. Lo dice Giorgio Vacchiano, professore in gestione e pianificazione forestale all’Università di Milano. In un colloquio con il Corriere della sera aggiunge: “Il rewilding spontaneo ha diversi effetti positivi, come la maggiore capacità di assorbire carbonio, ma anche un importante aspetto negativo: l’espansione dei boschi su aree precedentemente non boscate può in alcuni casi favorire la propagazione degli incendi, perché dove prima c’era un’alternanza di alberi, pascoli, coltivazioni, viti e orti, adesso è tutto coperto di bosco e una fiamma può percorrere distanze maggiori. E il bosco che brucia libera in atmosfera tutto il carbonio incorporato. Il cocktail micidiale si innesca con la crisi climatica: il fuoco può divorare più superficie verde, che è anche molto più secca per il moltiplicarsi delle siccità”. Da qui nasce il progetto Rewild Fire, finanziato dal ministero della Ricerca e condotto dalle università di Torino, Milano e Udine, per capire dove è meglio consentire il rewilding. “Andremo a verificare su tutto l’arco alpino, dal Piemonte al Friuli, quanto cresce il pericolo di incendi dove il bosco si è espanso su superfici precedentemente non boscate e dove c’era già ma ha aumentato la massa arborea”. L’obiettivo è individuare le zone dove il carbonio può essere messo davvero «in cassaforte», ovvero dove il rischio del fuoco è minore.
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