Ancora troppi combustibili fossili nell’industria della moda. Ma alcuni brand stanno gestendo la transizione meglio di altri. Un rapporto dell’ONG Stand Earth esamina le catene di approvvigionamento di undici grandi marchi, tra cui la svedese H&M, Puma, Nike, Levi’s, Adidas, Gap, la spagnola Inditex (Zara), la giapponese Fast retailing (Uniqlo) e Shein, sulla base dei loro dati pubblici e di quelli di Bloomberg.
Secondo Bloomberg, in un articolo pubblicato il 16 maggio, nel 2019 l’industria della moda ha generato più di un miliardo di tonnellate di CO2, pari a circa il 2% delle emissioni globali di gas serra. I marchi “continuano a utilizzare enormi quantità di combustibili fossili per produrre i loro capi di abbigliamento e calzature e non riescono a decarbonizzare le loro catene di approvvigionamento”, denuncia Stand Earth. Di questi undici marchi, solo Levi’s, Puma e H&M “sono sulla buona strada per ridurre” queste emissioni “di almeno il 55% entro il 2030 rispetto al 2018”, secondo Stand Earth, che ha stabilito un punteggio su 100 punti (impegni, trasparenza, progressi entro il 2030, azioni concrete, investimenti finanziari).
L’Ong descrive i progressi come “limitati ma incoraggianti” e sottolinea la percentuale significativa (27,4%) di energia rinnovabile nel consumo di elettricità di Puma attraverso i suoi due principali fornitori, nonché l’aiuto finanziario che H&M concede ai suoi subappaltatori per aiutarli, ad esempio, a installare pannelli solari. Nel settore del fashion, “il 13% delle emissioni proviene dai materiali e il 50% dalla produzione e dalla fabbricazione, motivo per cui la decarbonizzazione della catena di fornitura è essenziale”, spiega all’Afp Henrik Sundberg, responsabile delle questioni climatiche di H&M, durante un incontro a Parigi. Il marchio cinese Shein, con sede a Singapore, ha ottenuto il punteggio più basso (2,5 punti) e “ha aumentato le sue emissioni di circa il 50% in un solo anno (tra il 2021 e il 2022, ndr), emettendo ora tanto inquinamento annuo quanto il Paraguay”, ovvero 9,17 milioni di tonnellate, secondo Stand Earth. Il gruppo giapponese Fast Retailing viene dopo (14 punti), seguito dal rivenditore di abbigliamento sportivo Lululemon e da Inditex con 16 punti. “La maggior parte dei marchi ha ottenuto un punteggio inferiore a 25/100”.
Dopo la pubblicazione del servizio, il Gruppo Shein ha precisato in una nota inviata a GEA: “Shein porta avanti il suo impegno a mitigare il cambiamento climatico sia all’interno delle attività che attraverso la collaborazione con i propri fornitori. Nel 2023, Shein ha iniziato a sviluppare una roadmap di decarbonizzazione con il consulente di settore Anthesis e si è impegnata a stabilire obiettivi a breve termine con il progetto Science Based Targets (SBTi). Sono state avviate iniziative concrete per ridurre le emissioni di Scope 1, 2 e 3. Alcuni esempi chiave includono: Solarizzazione: 43,6M di capacità solare installata in sette magazzini Shein; 51,6MW di capacità solare installata in 41 siti di fornitori. Efficienza energetica: Progetti Clean by Design (CbD) implementati in 28 siti di fornitori, con >217 misure di miglioramento che hanno portato a una riduzione di quasi 46.000 tonnellate di emissioni. Logistica verde: opzione di ritiro in autonomia offerta ai clienti in otto paesi europei, con un risparmio stimato di ~19.500 tonnellate metriche di CO2e; partnership con partner logistici che utilizzano veicoli verdi, con un risparmio stimato di ~54.600 tonnellate metriche di CO2e. Strategia di localizzazione: l’inventario di nearshoring ha portato ad un risparmio stimato di ~49.578 tonnellate metriche di CO2e; localizzazione degli approvvigionamenti con un risparmio stimato di ~314.805 tonnellate metriche di CO2e”.
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