Ho più volte sostenuto su queste pagine che per riportare l’industria al centro delle politiche europee occorre un profondo cambiamento culturale che deve coinvolgere tutti.
Se non si comprende che il declino europeo è figlio di una visione sbagliata, di vere e proprie distorsioni cognitive, che ci hanno fatto presuntuosamente credere che il nostro primato nei diritti, nella democrazia, nel welfare possa essere eterno a prescindere dall’economia e dalla ricchezza creata, non si riuscirà a uscire dalla spirale involutiva in cui ci troviamo.
Come sempre quando le cose vanno male le responsabilità sono collettive. Le classi dirigenti europee al gran completo non sono state all’altezza della sfida. La politica non è stata capace di visione e di guida e, opportunisticamente, ha pensato di seguire e/o cavalcare l’onda di un ambientalismo populista e estremista che vede nelle imprese il problema invece che la soluzione.
Non riconoscere che dietro quest’onda verde si nascondevano, in molti casi, gli sconfitti della storia e gli epigoni di un pensiero anticapitalista e antioccidentale è stato un grave errore.
Questo atteggiamento non è stato solo delle forze politiche di sinistra ma, in molti casi, anche i moderati (vedi Von der Leyen sul green deal) e i conservatori non sono stati capaci di contrastare con argomenti razionali e scientifici l’estremismo ambientalista e la demagogia della “decrescita felice”.
Ma poiché le responsabilità sono collettive, in questo appannamento della ragione ci sono anche grandi responsabilità di vasti settori degli industriali europei e delle loro organizzazioni, che sono stati miopi o, troppe volte, deboli e senza voce in omaggio alla consuetudine del politically correct che impone di non alzare mai i toni con la Commissione Europea. In questo modo si sono accodati al pensiero dominante e, senza alcun coraggio, non hanno reagito né lottato per difendere la sopravvivenza dell’industria europea.
Molti sono gli esempi che, purtroppo, testimoniano di questa debolezza.
Era del tutto evidente, ad esempio, che non sostenere il principio della “neutralità tecnologica” come strada maestra per la decarbonizzazione dell’economia e dell’industria, ma puntare tutto sull’elettrico, sarebbe stato un grave errore concettuale e metodologico destinato ad avere gravissime conseguenze.
Gli industriali europei dell’automotive, soprattutto i tedeschi leader di questo settore, in preda ad una sorte di “sindrome di Stoccolma” e con la coscienza sporca per il dieselgate hanno rinunciato ad ogni battaglia per la difesa dei motori endotermici sui quali l’Europa aveva ed ha un primato tecnologico e industriale mondiale, optando per l’elettrico e accettando che dal 2035 non si vendano più auto alimentate con idrocarburi.
La cosa risulta assolutamente insensata se si considera che le tecnologie di decarbonizzazione messe a punto per i motori endotermici (Euro 6) o l’uso di combustibili sintetici o biologici consente di raggiungere livelli di inquinamento atmosferico e di emissioni di CO2 prossimi a quelli dei motori elettrici.
E così si è preferito fare giganteschi investimenti solo sui modelli elettrici senza valutare: da un lato i drammatici effetti industriali e occupazionali di questa scelta sulla filiera dell’automotive (un motore elettrico ha da 10 a 12 volte meno componenti di un motore endotermico); dall’altro gli enormi problemi ambientali e di dipendenza strategica connessi alla scelta dell’elettrico, come produzione del litio per le batterie, monopolio cinese o quasi nella produzione di tutte le tecnologie rinnovabili e dominio cinese nella produzione di auto elettriche .
Anche in questo caso ci è mancato tanto Sergio Marchionne, che sull’elettrico è sempre stato prudente, per non dire scettico, e che oggi sorriderebbe con un po’ di ironia vedendo tante case automobilistiche, a partire dalla giapponese Toyota, rallentare considerevolmente i loro programmi sull’elettrico.
O ancora, c’è stata una debolezza estrema degli industriali europei e delle loro organizzazioni sulla così detta “tassonomia” delle tecnologie eleggibili, cioè finanziabili con fondi pubblici, per la transizione. Da una parte vi è stata un’accettazione acritica della tecnologia dell’idrogeno per ora assai complicata e economicamente squilibrata perché basata su due risorse scarse e preziose (energie rinnovabili e acqua) e costosissima. Dall’altro si è deciso, per ragioni puramente ideologiche, di rifiutare l’inserimento nella tassonomia delle tecnologie di “carbon capture” applicate alla generazione elettrica da turbogas.
Quali sono le ragioni per le quali la generazione elettrica con il gas naturale deve essere contrasta anche se carbon neutral? Perché contrastare il gas naturale che sarà l’unica vera fonte energetica della transizione a basso costo e a basso inquinamento per quella parte di domanda che non potrà essere coperta dalle rinnovabili?
Non sono venute risposte a questi interrogativi.
Così come non vi sono state proteste significative (al riguardo gli agricoltori e gli allevatori sono stati molto più bravi degli industriali e dei lavoratori dell’industria) per tutte le misure adottate senza considerare gli effetti sui settori industriali di base (acciaio, chimica, carta, vetro, ceramica ecc.) che dal 2030-2032 non avranno più quote gratuite di CO2 e che per questo saranno costretti a chiudere o a delocalizzare creando gravi problemi alle filiere industriali sottostanti e nuove dipendenze strategiche.
Solo in un caso, quello delle norme sul packaging, si è vista una battaglia vincente degli industriali che si opponevano a norme assurde. Guarda caso la battaglia è stata condotta con successo dagli italiani che hanno raccolto intorno alla loro impostazione molti Paesi dell’Unione dimostrando che è possibile contrastare decisioni sbagliate della Commissione Europea.
In generale al di là di questo caso di successo, gli industriali europei e le loro organizzazioni devono recitare il mea culpa per la loro incapacità di difendere l’industria europea dagli eccessi del green deal e dalla caduta di competitività che ne discende.
Solo oggi, molto lentamente, si fa strada la consapevolezza che così non si può andare avanti e che gli eccessi dell’estremismo ambientalista e del mercatismo globalista rischiano di ammazzare l’industria europea. Ma la strada è ancora lunga e in salita.
Ripenso con tristezza e rabbia ai tanti interventi che ho svolto negli ultimi anni in Consiglio Generale di Confindustria su questi temi, interventi spesso accolti da alcuni autorevoli colleghi con fastidio come divisivi o addirittura antieuropei. Purtroppo non ha voluto davvero bene all’Europa proprio chi non ha saputo vedere cosa stava accadendo, e per conformismo ha preferito assecondare il mainstream, e per mancanza di coraggio non ha saputo o voluto contrastare un’ideologia che, nei fatti, vuole cancellare l’industria europea.
Forse qualcosa oggi sta cambiando ma tutto è diventato maledettamente più difficile.
Che coincidenza. Il governo tedesco stoppa un carico di Gnl proveniente dalla Russia e Gazprom…
La presidenza della Cop29 è stata incaricata di ospitare il Baku Climate and Peace Action…
“Mentre Salvini straparla di qualsiasi argomento, perfino sui satelliti di Musk e sulla giornata della…
Non si placa lo scontro a distanza tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein. Questa volta,…
A seguito dell'appello degli esperti internazionali, 800 residenti in 35 diversi paesi, le associazioni regionali…
"Grazie a Manfred Weber e agli amici della CSU per il proficuo incontro di oggi…