Nella crisi diplomatica il grano è un’arma

Frutto di climi temperati e fattore di pace quando abbonda, il grano è diventato in pochi mesi un’arma diplomatica nel contesto dell’invasione russa dell’Ucraina. A cosa è dovuta questa crisi?

Secondo i dati dell’Onu, più di 200 milioni di persone nel mondo soffrono la fame acuta e, sotto l’effetto dell’aumento dei prezzi dei generi alimentari – determinato anche dalla guerra – si temono “nuovi uragani di carestia“. Perché il grano è insostituibile? Sotto forma di semola, farina o pane, “il grano lo mangiano tutti, ma non tutti sono in grado di produrlo“, riassume l’economista francese Bruno Parmentier, autore di ‘Nutrire l’umanità’. Oggi solo una dozzina di Paesi produce abbastanza grano tenero da poterlo esportare: la Cina, che è il più grande produttore mondiale, Russia, Stati Uniti, Canada, Australia e Ucraina.

Consumato da miliardi di persone, il grano è “il principale cereale per la sicurezza alimentare globale“, sottolinea Sébastien Abis, ricercatore associato presso l’Istituto per le relazioni internazionali e strategiche (Iris) di Parigi. Il mais è “soprattutto utilizzato per l’alimentazione animale o per esigenze industriali“. I prezzi dei cereali erano già altissimi prima della guerra: quello del grano è salito su tutti i mercati dall’autunno 2021 ed è rimasto su livelli elevati grazie alla ripresa economica post-Covid.

Diversi fattori spiegano questa curva al rialzo: l’impennata dei costi energetici che ha seguito la traiettoria di idrocarburi, fertilizzanti azotati (prodotti dal gas e il cui prezzo è triplicato in un anno), trasporti (congestione dei porti, mancanza di manodopera…) e il clima, con un raccolto catastrofico in particolare in Canada, sotto una cupola di caldo schiacciante la scorsa estate. Perché lo scoppio della guerra ha fatto precipitare le cose? Sulla scia dell’invasione russa, il 24 febbraio 2022 il prezzo del grano ha battuto i record: sul mercato europeo è salito a oltre 400 euro per tonnellata a maggio, il doppio della scorsa estate.

Questo aumento è insostenibile per i più poveri, in particolare per i trenta Paesi che dipendono “almeno per il 30% da Ucraina e Russia” per le loro importazioni, sottolinea la Fao. Questi due Paesi, storicamente considerati i granai d’Europa, rappresentavano il 30% delle esportazioni mondiali di cereali. Negli ultimi anni la loro produzione è aumentata costantemente, con Mosca in testa tra gli esportatori, mentre l’Ucraina è sulla strada per il terzo posto. Il loro ruolo sul mercato ha pesato molto nella “dinamica della paura” che si è imposta nei primi mesi del conflitto, come osserva Edward de Saint-Denis, della società di intermediazione in materie prime Plantureux & Associés.

Quali conseguenze per l’Ucraina? La situazione sul Mar d’Azov e il blocco dei porti ucraini sul Mar Nero hanno immediatamente privato i mercati di oltre 25 milioni di tonnellate di grano e altri cereali, bloccati in fattorie o nei silos degli impianti portuali. Nonostante gli enormi sforzi per ‘liberare’ questi prodotti, le esportazioni su strada e ferro sono rimaste sei volte inferiori a quelle via mare. Fino al limite delle aree frontali, i contadini sono riusciti a seminare, ma i raccolti dovrebbero diminuire del 40% per il grano e del 30% per il mais, secondo le stime della principale associazione di produttori ed esportatori in Ucraina.

In tempo di guerra, i maggiori Paesi produttori tengono letteralmente nelle loro mani il destino degli altri, perché nessun governo può permettersi di far soffrire la fame al suo Paese. Ma le carestie “non sono mai legate alla produzione alimentare“, “sono sempre causate da problemi di accesso“, ha recentemente sottolineato Arif Husain, capo economista del Programma alimentare mondiale (WFP).

All’inizio di giugno sono iniziati i negoziati su richiesta dell’Onu, sotto l’egida della Turchia, per creare “corridoi marittimi sicuri” che consentano l’esportazione delle scorte ucraine. Ma gli esiti non sono stati quelli sperati. Mosca ha chiesto la revoca almeno parziale delle sanzioni occidentali, responsabili a suo dire di “aggravare la crisi alimentare“. Una richiesta qualificata come “ricatto” dal capo della diplomazia americana, Antony Blinken.

Certo, i Paesi che disponevano di riserve avrebbero potuto metterle sul mercato, ma è la Cina ad avere lo stoccaggio più ampio e non è sua intenzione cedere il proprio grano. Dopo un primo ok da parte dell’India, la situazione è nuovamente precipitata: una devastante siccità ha costretto Nuova Dehli a sospendere temporaneamente le esportazioni. La Russia, il cui raccolto di grano si preannuncia straordinario quest’anno, continua a vendere ai Paesi “amici”, in particolare in Medio Oriente, agevolando anche il flusso di gas e l’esportazione di fertilizzanti.

A breve, una soluzione temporanea arriverà dai nuovi raccolti, che promettono di essere “piuttosto buoni” in America, Europa e Australia. Il raccolto di grano 2022 dovrebbe aggirarsi intorno a 775 milioni di tonnellate, secondo il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti.

Giulia Proietto Billorello

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