Washington consensus: gli Usa e le politiche di decarbonizzazione europee

Un importante discorso, pronunciato lo scorso 27 aprile alla Brooking Institution dal consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati UnitiJake Sullivan, propone un’analisi critica di alcuni effetti della globalizzazione e si pone la questione di come fare affinché le società aperte e democratiche possano “costruire un ordine economico globale più equo e duraturo a vantaggio di noi stessi e delle persone di tutto il mondo”.

Sulla costruzione di questo nuovo ordine economico globale più equo e duraturo l’America di Biden è alla ricerca di un nuovo consenso che tenga conto degli sconvolgimenti che hanno investito il mondo negli ultimi decenni e che hanno messo in crisi il vecchio ordine mondiale: dalle crisi finanziarie che si sono succedute, ai sacrifici patiti dalle fasce di popolazione più impattate dal processo di globalizzazione dell’economia mondiale, alla pandemia che ha messo in luce la fragilità delle catene di approvvigionamento dell’occidente, fino all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia che ha mostrato i rischi di dipendenza da nazioni e Paesi non democratici.

La riflessione parte, come detto, da una serie di considerazioni critiche su ciò che è successo negli anni della cosiddetta ‘globalizzazione’ e in particolare da ciò che non ha funzionato per gli Usa e per l’Occidente in tutto in quel gigantesco processo di trasformazione del mondo.

La prima grave insufficienza riguarda i sistemi industriali occidentali, che con lo spirare vorticoso dei venti della globalizzazione si sono progressivamente svuotati mettendo in sofferenza territori e classi sociali non protetti.

Liberalizzazione del commercio mondiale fine a se stessa, deregolamentazione, riduzione o scomparsa dell’intervento pubblico anche nei settori strategici con ritorni più lunghi e lenti: tutto ciò ha messo in crisi soprattutto gli apparati industriali di base, che sono fondamentali per tutte le filiere sottostanti.

Alla base di queste scelte politiche secondo Sullivan stava un assunto: che i mercati allochino sempre il capitale in modo produttivo ed efficiente, indipendentemente da ciò che fanno i concorrenti e da quali strumenti e politiche di protezione vengano adottati.

In nome di un’efficienza di mercato eccessivamente semplificata intere catene di approvvigionamento di beni strategici – insieme alle industrie e ai posti di lavoro che li producono – si sono spostate in paesi terzi che presentavano costi delle produzioni inferiori a quelli dell’Occidente. E il postulato secondo il quale una profonda liberalizzazione dei commerci mondiali avrebbe comportato per le economie occidentali, sempre e comunque, maggiori esportazioni, maggior benessere, maggiore crescita non si è verificato del tutto.

Altro postulato di questa visione era che il tipo di crescita non fosse importante: tutta la crescita era buona crescita. Così sono stati privilegiati alcuni settori dell’economia come la finanza e i servizi, mentre altri settori essenziali e strategici come i semiconduttori, le infrastrutture e parte dell’industria manifatturiera si sono atrofizzati.

La capacità industriale dell’Occidente ha subito duri colpi e con essa la capacità di fare innovazione.

Gli choc che negli ultimi 10/15 anni si sono succeduti colpendo l’economia mondiale, prima la crisi finanziaria del 2008/2009, poi la crisi pandemica del 2020/2021, hanno mostrato tutti i limiti di questa impostazione sovente segnata da estremismo liberista o mercatista, da eccesso di finanziarizzazione, da sottovalutazione dei problemi di sicurezza oltre che di economicità degli scambi mondiali.

La seconda grande insufficienza, le cui conseguenze peseranno, e molto, negli anni futuri, è stata il non capire che si stavano creando dipendenze strategiche dell’Occidente dalla scelte e dalle forniture di Paesi ed economie non occidentali, spesso conflittuali con noi, minando alle fondamenta la sicurezza del nostro vivere.

Questa insufficienza e incomprensione deriva dal fatto che l’impostazione della politica economica internazionale degli ultimi decenni si basava sulla premessa che l’integrazione economica avrebbe reso le nazioni più responsabili e aperte, e che l’ordine globale sarebbe stato più pacifico e cooperativo. In maniera quasi automatica e spontanea, secondo questo assunto, i Paesi coinvolti in questi processi di integrazione e nelle loro regole sarebbero stati progressivamente portati a fare proprie queste regole e a rispettarle.

Sullivan rileva e sottolinea che non è andata così. O meglio, alcuni casi sì in molti altri no.

L’integrazione della Cina nel novero dei Paesi aderenti all’organizzazione del Commercio Mondiale (WTO) ha rappresentato e rappresenta un’enorme sfida per gli apparati industriali dell’Occidente.

La Repubblica popolare cinese ha continuato, nonostante l’adesione al WTO, a sovvenzionare in modo massiccio sia i settori industriali tradizionali sia le industrie fondamentali per il futuro come l’energia pulita, le infrastrutture digitali, l’intelligenza artificiale, le biotecnologie avanzate.

L’Europa, più che gli Stati Uniti, ha creato, nei decenni di globalizzazione, dipendenze che si sono rivelate davvero pericolose: la dipendenza energetica dal gas russo in primis, ma anche la vulnerabilità delle catene di approvvigionamento di apparecchiature mediche, semiconduttori, minerali critici.

Sempre l’Europa, forzando ideologicamente i processi di decarbonizzazione, con il ricorso spinto alle energie rinnovabili e all’elettrificazione e alla mobilità elettrica come uniche tecnologie capaci di portare alla sostenibilità delle nostre economie (senza peraltro  porsi il problema della sicurezza degli approvvigionamenti) , sta ponendosi nuovamente in posizione di dipendenza strategica dalla Cina per tutto ciò che riguarda litio, cobalto, terre rare, nickel e cioè  tutto quello che serve per costruire batterie.

L’integrazione economica non ha impedito alla Cina di espandere le proprie ambizioni militari nella regione, né alla Russia di invadere i suoi vicini democratici. Nessuno dei due Paesi (Cina e Russia) è diventato più responsabile e collaborativo.

La terza grave insufficienza è stata, soprattutto in Europa, l’impostazione delle politiche di decarbonizzazione e di transizione energetica. In molte fasi recenti della storia dell’Unione Europea è sembrata prevalere un’impostazione dettata da un ambientalismo estremo trasformato in religione neopagana del nostro tempo, che demonizza il progresso economico e predica un futuro di sacrifici dolorosi oppure l’Apocalisse imminente.

La quarta grave insufficienza è stata quella di non occuparsi abbastanza delle diseguaglianze crescenti scaturite dai processi di globalizzazione.

L’ipotesi prevalente, anche qui sbagliata, era che la crescita indotta dall’espansione del commercio internazionale sarebbe stata una crescita inclusiva, che i guadagni del commercio avrebbero finito per essere ampiamente condivisi da vasti strati di popolazione agendo come un gigantesco meccanismo redistributivo della ricchezza.

Ciò è avvenuto in effetti per le popolazioni, o almeno per significative parti di esse, dei Paesi in via di sviluppo che, con la globalizzazione, hanno visto crescere il loro benessere. Ma in Occidente moltissimi lavoratori da questi guadagni non sono stati minimamente toccati. Le classi medie hanno perso sempre più terreno subendo processi gravi di impoverimento, mentre si è assistito ad una concentrazione della ricchezza, sempre di più nelle mani di pochi, anzi di pochissimi.

C’è stata, in altri termini, una progressiva disconnessione e tra politiche economiche internazionali e politiche interne; laddove queste ultime non sono riuscite a gestire le conseguenze pesanti della globalizzazione su molti settori industriali manifatturieri, nei confronti dei quali non vi è stata alcuna attenzione né cura.

Le conseguenze sociali di questa disattenzione e assenza di cura è stata la nascita e la crescita, nei Paesi occidentali, di populismi e estremismi che mettono in pericolo la convivenza civile e la stessa democrazia.

Vittorio Oreggia

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