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Ue vicina agli obiettivi di sviluppo dell’Onu ma ancora troppo dipendente da fossili

Buoni progressi verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile che riguardano il consumo energetico, la fornitura di energia e l’accesso all’energia a prezzi accessibili, ma l’Unione Europea rimane ancora troppo dipendente dalle importazioni, specialmente quelle fossili. Sono le osservazioni dell’ultima relazione di monitoraggio sui progressi dell’Unione Europea verso i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile, adottati dalle Nazioni Unite (ONU) nel settembre 2015, pubblicata lunedì da Eurostat. Monitorando in particolare i progressi raggiunti dall’Unione europea verso l’obiettivo numero 7 – che chiede di garantire l’accesso universale ai servizi energetici moderni, migliorare l’efficienza energetica e aumentare la quota di energia rinnovabile – l’ufficio statistico dell’Ue osserva che i maggiori progressi dell’Ue sono stati compiuti nel consumo di energia. “Le misure adottate in risposta alla pandemia di COVID-19 e le relative restrizioni alla vita pubblica e alla riduzione dell’attività economica hanno ridotto notevolmente i consumi nel 2020”, si legge nel rapporto. Motivo per cui l’Ue è stata in grado di raggiungere l’obiettivo fissato per il 2020 e sembra sulla buona strada per raggiungere quello fissato per il 2030. Lo stesso si riscontra per quanto riguarda l’energia prodotta da risorse rinnovabili, come il sole o il vento: l’Ue è nella giusta traiettoria per gli obiettivi al 2030.

Il documento, di oltre 380 pagine, è meno ottimista per quanto riguarda la dipendenza dell’Ue dalle importazioni di energia da Paesi terzi e in particolare le risorse fossili. Si osserva “un miglioramento”, ma negli ultimi 5 anni il trend per l’Unione europea è stato quello di un progressivo allontanamento dagli obiettivi dell’Onu per quanto riguarda la dipendenza energetica. L’Ue dipendeancora fortemente dai combustibili fossili per la sua energia”, si legge nel documento, in cui viene specificato che la relazione osserva i progressi compiuti dall’Ue nel 2020, quindi non tiene conto dell’aumento dei prezzi dell’energia causati anche dalla guerra di Russia in Ucraina. Ma proprio la guerra di Ucraina deve portare l’Ue a riconsiderare le proprie forniture energetiche.

I numeri snocciolati nel documento parlano di importazioni di combustibili dai Paesi extra-Ue che hanno contribuito al 57,5% dell’energia disponibile lorda nel 2020 nel Vecchio continente. Si tratta di una quota quasi identica a quella del 2005, quando le importazioni coprivano il 57,8%. Questa stagnazione secondo Eurostat può essere spiegata in due modi: da un lato, l’Ue ha ridotto il suo consumo di energia e ha aumentato l’uso delle energie rinnovabili nazionali; dall’altro lato, però, ha assistito a una riduzione della produzione primaria di combustibili fossili a causa dell’esaurimento o dell’antieconomicità delle fonti interne, in particolare del gas naturale. In sostanza, dal momento che costano tanto, meglio importarle.

Tanto che, nel 2020, le principali importazioni nette sono state di petrolio e prodotti petroliferi (97,0%), seguite dal gas naturale (83,6%) e dai combustibili solidi (prevalentemente carbone, per il 35,9% importato). Le importazioni nette di energie rinnovabili, compresi i biocarburanti, hanno rappresentato solo l’8,5% dell’energia rinnovabile lorda disponibile nel 2020 e solo l’1,7% delle importazioni nette totali. Il rapporto ricorda che la Russia ha continuato a essere il principale fornitore di energia all’Ue nel 2020, con il 43,6% del gas, il 28,9% dei prodotti petroliferi e il 53,7% delle importazioni di combustibili solidi da paesi terzi. I successivi maggiori fornitori di gas e prodotti petroliferi sono stati i Paesi europei che non fanno parte dell’Ue (principalmente Norvegia e Regno Unito), che hanno fornito il 25,4% del gas e il 16,5% delle importazioni di petrolio.

Negli ultimi cinque anni un ”leggero allontanamento” rispetto agli obiettivi di sviluppo sostenibile per la vita sulla terraferma (l’obiettivo numero 15), indicano che gli ecosistemi e la biodiversità sono rimasti “sotto pressione”, principalmente a causa delle attività umane. Sebbene sia la superficie forestale dell’Ue che le aree protette terrestri “siano leggermente aumentate, la pressione sulla biodiversità ha continuato ad intensificarsi”. Ad esempio, si legge, la presenza di uccelli comuni è un indicatore di biodiversità perché molti di loro richiedono habitat specifici per riprodursi e trovare cibo, che spesso ospitano anche molte specie animali e vegetali minacciate. Dal 2000, Eurostat stima “che il numero di uccelli comuni sia diminuito del 10%. Tuttavia, dopo molti anni di declino, sembra che il numero di uccelli comuni abbia iniziato a stabilizzarsi”, conclude il rapporto.

Nadia Bisson

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