I grandi vecchi che stanno dietro l’ambientalismo estremista

Continuo a pensare che dietro l’estremismo ambientalista, ideologico ed astratto, che purtroppo ha orientato negli ultimi dieci anni anche le politiche europee contro il climate change e per il così detto green deal, ci siano anche alcuni “grandi vecchi”, sconfitti nel loro credo dalla storia, ma che hanno rivestito lo spirito e il pregiudizio anticapitalista e anti-impresa con le bandiere dei verdi.

La lettura di un libro-intervista importante per il peso degli autori, Noam Chomsky e Robert Pollin: ‘Climate Crisis and the Global Green New Deal’ (2020 ed. Verso Books), mi ha definitivamente convinto di ciò e mi ha fatto ancora di più comprendere che se la battaglia contro il climate change per preservare il pianeta a beneficio delle future generazioni non si libererà al più presto del furore e dell’estremismo ideologico di questi grandi vecchi è destinata a fallire, travolta dagli schematismi astratti e dalle reazioni di rigetto che tutti gli estremismi provocano.

Noam Chomsky (Philadelphia 1928) non ha bisogno di presentazioni. È il maggiore linguista vivente e uno dei punti di riferimento della sinistra radicale americana e internazionale. È professore emerito all’MIT (Massachusetts Institute of Technology).

Robert Pollin (Washington 1950) è professore di Economia e Co-direttore del Political Economy Research Institute (PERI) alla University of Massachusetts Amherst e da molti anni si occupa di green economy.

I due intellettuali americani, veri e propri maîtres à penser cui si ispirano vasti settori della sinistra ambientalista, confermano nel loro libro-intervista che vi è una corrente di pensiero vasta e influente che ha trasformato le politiche ambientali e le lotte al cambiamento climatico in una moderna religione neopagana che di fatto demonizza il progresso economico e tecnologico, e che predica per il futuro sacrifici dolorosi oppure l’Apocalisse imminente. Non a caso la traduzione italiana del loro libro reca come titolo “Minuti contati”.

La tesi di fondo è che occorre considerare la crisi climatica come il prodotto di un sistema che ha guidato l’economia da più di 500 anni. Noam Chomsky afferma senza tentennamenti che “la tendenza intrinseca del capitalismo è degradare l’ambiente da cui dipende la vita. La logica capitalistica, se priva di vincoli, è una ricetta per la distruzione”; e ancora, collegandosi e rispolverando nostalgicamente i dogmi del marxismo-leninismo, afferma nell’intervista che “gli elementi fondanti del capitalismo conducono direttamente alla distruzione delle basi della vita sociale”. E prosegue: “Il modello occidentale di industrializzazione è stato fondato sulla schiavitù (con la creazione dell’impero del cotone e degli elementi costitutivi di gran parte dell’economia moderna), sul carbone (che si trovava in abbondanza in Inghilterra e altrove) e nel ventesimo secolo sul petrolio”.

Come non cogliere, in queste affermazioni, non solo le radici di un ambientalismo fondamentalmente anticapitalista ma anche quelle della così detta “cancel culture” che bolla tutta la storia occidentale come un abominio?

Le ricette di Chomsky e Pollin, quando gli autori cercano di passare alla pars construens, sono quanto mai vaghe e confuse. Vengono scartate, come strumenti per raggiungere la decarbonizzazione dell’economia, tutte le tecnologie non rinnovabili (nucleare, carbon capture, biocombustibili ecc.): e anche in questo caso non possiamo non ricollegare tale rifiuto alla battaglia campale, ancora in corso in Europa, per negare il concetto di “neutralità tecnologica” che è stato combattuto a lungo dall’ambientalismo radicale.

Nel mio piccolo vorrei, proprio partendo dal tema delle tecnologie, fare le mie principali contestazioni al pensiero anticapitalista e antioccidentale dei due intellettuali  statunitensi.

Non si tratta tanto di fare una difesa di principio del capitalismo e dell’ideologia neo-liberista, che di fatto non ha governato adeguatamente gli effetti della globalizzazione soprattutto nei confronti di vasti strati sociali occidentali che oggi soffrono e si ribellano.

Né si tratta d’altra parte di ricordare che proprio la globalizzazione capitalista ha tolto dalla miseria miliardi di persone nel mondo, soprattutto nelle economie emergenti, ed ha allungato la speranza di vita media come mai era successo nella storia dell’umanità.

Vorrei strettamente rimanere sul tema del climate change.

Oggi in realtà i più grandi sforzi di decarbonizzazione sono condotti proprio in occidente, in Europa e negli Stati Uniti d’America, dove sono proprio le imprese capitalistiche, in moltissimi settori, che fanno ricerca e innovazione per raggiungere processi e prodotti industriali sempre più sostenibili. Come si è già detto, non mancano gravi problemi di protezione di tutti quei settori industriali e di quelle classi sociali, già indeboliti dalla globalizzazione e ancor più colpiti dalle conseguenze di processi di deindustrializzazione provocati dalla gestione ideologica e estremista di tali politiche: “Voi parlate della fine del mondo ma noi ci preoccupiamo della fine del mese. Come sopravviveremo alle vostre riforme?” è questa la domanda pressante a cui bisogna dare risposte concrete onde evitare un rigetto totale delle politiche ambientaliste.

Ma nonostante tutti i problemi e le difficoltà l’Occidente andrà avanti, correggendo magari gli approcci più astratti e insensati della decarbonizzazione, ma andrà avanti con la ricerca, l’innovazione, lo sviluppo di nuove tecnologie e la crescita necessaria per finanziare gli enormi investimenti necessari a combattere il cambiamento climatico, perché tutto ciò fa parte del corredo genetico del capitalismo. E saranno le imprese che svilupperanno questo programma, a condizione di non essere criminalizzate e contrastate fino a farle chiudere.

Noam Chomsky e Robert Pollin guardano con diffidenza a tutto ciò. È talmente grande il pregiudizio anticapitalistico che si ha la sensazione che leggano la maggior parte di questi processi come “greenwashing”.

Ma c’è un’altra critica ancora più sostanziale al loro ragionamento: non vi è in esso alcuna seria considerazione di ciò che sta effettivamente avvenendo nel mondo.

I dati sui consumi energetici del 2023 a livello mondiale ci dicono infatti due cose: la prima è che le fonti rinnovabili crescono in tutto il mondo a doppia cifra; ma la seconda è che parallelamente cresce anche il consumo di combustibili fossili, petrolio, gas e carbone.

La spiegazione di tutto ciò è semplice. I consumi totali di energia crescono soprattutto perché trainati dalle economie emergenti, come Cina e India, e le rinnovabili non riescono neanche a coprire l’aumento della domanda. Così i combustibili fossili continuano a soddisfare più dell’80% (!) del consumo totale di energia a livello mondiale: esattamente quanto succedeva 20 anni fa in termini percentuali, ma con il piccolo problema che i valori assoluti si sono più che raddoppiati, con le conseguenze facilmente immaginabili sulle emissioni totali di CO2.

Ciò naturalmente è dovuto anche al fatto che non basta solo l’elettricità prodotta dalle rinnovabili, perché ci sono settori come quelli del trasporto aereo, del trasporto marittimo, di quello su gomma oppure di taluni processi industriali non elettrificabili e del riscaldamento domestico che continuano ad avere bisogno del petrolio e/o dei suoi derivati.

Risultato: le emissioni totali continuano ad aumentare e hanno registrato il loro picco storico proprio nel 2023.

Intere aree del mondo, Asia e Africa in primis, hanno un’enorme fame di energia, una fame di energia che non può essere soddisfatta solo dal sole e dal vento, che sono fonti non programmabili, ed hanno bisogno di altre fonti capaci di coprirne la temporanea assenza (cioè quando non c’è il sole e quando non c’è il vento). Ed è questa una delle ragioni per le quali ci si torna ad occupare intensamente, in molte nazioni del mondo compresa l’Italia, di nucleare e delle sue nuove tecnologie di quarta generazione con gli SMR (small reactor) e con i microreactor, molto più sicuri e meno costosi.

I “grandi vecchi” sembrano non accorgersi di questa contraddizione e, forse in omaggio ad un terzomondismo duro a morire, pongono con forza il tema della decarbonizzazione dei paesi occidentali, ed omettono di fare altrettanto con riferimento a quei Paesi che sono già i colossi economici di oggi come Cina, India, Indonesia, Brasile, Turchia e Russia, cioè tutti quei paesi che rappresentano la maggioranza della popolazione mondiale, la stragrande maggioranza delle emissioni di CO2 nell’atmosfera e che esplicitamente si pongono come un’alternativa all’occidente.

Se oggi per un colpo di bacchetta magica tutta l’industria europea chiudesse facendo sparire le sue emissioni di CO2, che son più o meno il 3,5% di tutte le emissioni mondiali (!), ciò non servirebbe a nulla perché le stesse aumentano nel globo annualmente della stessa quantità.

Infine, Chomsky e Pollin fanno sorridere quando scartano per l’Occidente il nucleare civile, per la sua presunta vicinanza a questioni militari, e nulla si sentono di dire del continuo arricchimento dell’uranio fatto in Iran e in altri stati canaglia per arrivare alla bomba.

Vittorio Oreggia

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