Obiettivi decarbonizzazione Italia più lontani: emissioni CO2 calano al rallentatore

Nonostante la crescita delle rinnovabili, l’Italia si trova ancora ad affrontare sfide significative per quanto riguarda la decarbonizzazione e la sicurezza energetica, con obiettivi a lungo termine che sembrano sempre più difficili da raggiungere. E’ quanto emerge dall’analisi di ENEA sull’energia italiana.

Nel terzo trimestre di quest’anno, esordisce il report, il sistema energetico nazionale ha registrato un aumento dell’8% nella produzione da fonti rinnovabili, segnando un incremento significativo ma inferiore rispetto al +25% della prima metà dell’anno. Questo dato si inserisce in un quadro complessivo caratterizzato da una ripresa dei consumi energetici, che sono aumentati del 2%, e da una frenata nel calo delle emissioni di Co2, che hanno registrato una riduzione limitata del 1%, a fronte di un -7% nei primi sei mesi del 2024. ENEA poi sottolinea il peggioramento dell’indice ISPRED – che monitora sicurezza energetica, prezzi e decarbonizzazione – arrivato ai minimi storici.

La crescita dei consumi è stata principalmente guidata dal settore dei trasporti (+2%) e dal settore civile (+3,5%), quest’ultimo influenzato dall’uso intensivo dei climatizzatori durante l’estate particolarmente calda. D’altro canto, il consumo energetico nell’industria continua a diminuire, registrando un -2,5% rispetto allo stesso periodo del 2023, segnando il decimo calo trimestrale consecutivo. Un dato che, secondo Francesco Gracceva, ricercatore ENEA, è legato alla crisi economica tedesca e ai prezzi dell’energia, che restano elevati e in crescita.

Sul fonte produttivo energetico invece, ebbene la crescita delle rinnovabili rimanga positiva con un incremento dell’8% nel terzo trimestre, si nota un rallentamento significativo rispetto ai risultati della prima metà dell’anno. Il settore elettrico ha visto una riduzione delle emissioni di CO2 grazie al calo della generazione da fonti fossili, scesa al 46%, un dato che segna un nuovo minimo storico. Tuttavia, nel complesso, le emissioni continuano a crescere (+2%) nei settori non-ETS, che comprendono terziario, residenziale, trasporti e industria non energivora, con l’aumento nei trasporti che compensa in parte il calo negli altri settori.

Il rallentamento delle emissioni ha avuto un impatto negativo dunque sull’indice ISPRED, che misura l’efficacia delle politiche energetiche. “Il componente legato alla decarbonizzazione ha toccato i minimi storici, con la traiettoria delle emissioni nei settori non-ETS distante dagli obiettivi di riduzione al 2030”, ha spiegato Gracceva. Per centrare i target di decarbonizzazione, le emissioni nei settori non-ETS dovrebbero ridursi di almeno il 5% annuale nei prossimi sei anni.

In generale, nel terzo trimestre, si è continuato a registrare un drastico calo dei consumi di carbone (-40%), ma aumenti sono stati registrati per altre fonti fossili: il petrolio è cresciuto del 2,5%, principalmente per la crescita della mobilità, mentre il gas ha visto un incremento del 3%, soprattutto nella generazione elettrica. In Europa, i consumi di carbone sono scesi del 20%, mentre il gas ha visto una riduzione del 5%, con un aumento significativo della produzione di elettricità da fonti rinnovabili (+15%) e un incremento del nucleare (+6%).

Le emissioni di CO2 causate dagli incendi boschivi sono aumentate del 60% dal 2001 a oggi

Un nuovo importante studio rivela che le emissioni di anidride carbonica (CO2) prodotte dagli incendi boschivi sono aumentate del 60% a livello globale dal 2001 e sono quasi triplicate in alcune delle foreste boreali più sensibili al clima.
Lo studio, condotto dall’Università dell’East Anglia (UEA) e pubblicato su Science, ha raggruppato le aree del mondo in “piromi” – regioni in cui i modelli di incendio forestale sono influenzati da controlli ambientali, umani e climatici simili – rivelando i fattori chiave che guidano i recenti aumenti dell’attività degli incendi boschivi.

Si tratta di uno dei primi studi che esamina a livello globale le differenze tra incendi boschivi e non boschivi e mostra che in uno dei piromi più grandi, che comprende le foreste boreali in Eurasia e Nord America, le emissioni dovute agli incendi sono quasi triplicate tra il 2001 e il 2023.

Gli aumenti significativi sono stati osservati più in generale nelle foreste extratropicali e ammontano a mezzo miliardo di tonnellate di CO2 in più all’anno, con l’epicentro delle emissioni che si è spostato dalle foreste tropicali proprio verso quelle extratropicali.
La crescita delle emissioni è stata collegata all’aumento delle condizioni climatiche favorevoli agli incendi, come quelle di caldo-secco che si verificano durante le ondate di calore e le siccità, nonché all’aumento dei tassi di crescita delle foreste che creano più combustibili vegetali. Entrambe le tendenze sono favorite dal rapido riscaldamento delle alte latitudini settentrionali, che avviene a una velocità doppia rispetto alla media globale.

Lo studio rivela un preoccupante aumento non solo dell’estensione degli incendi boschivi negli ultimi due decenni, ma anche della loro gravità. Il tasso di combustione del carbonio – una misura della gravità degli incendi basata sulla quantità di carbonio emessa per unità di superficie bruciata – è aumentato di quasi il 50% nelle foreste di tutto il mondo tra il 2001 e il 2023.

Il lavoro ha coinvolto un team internazionale di scienziati – provenienti da Regno Unito, Paesi Bassi, Stati Uniti, Brasile e Spagna – che avvertono che un’ulteriore espansione degli incendi boschivi può essere evitata solo se si affrontano le cause primarie del cambiamento climatico, come le emissioni di combustibili fossili.

Le foreste sono importanti a livello mondiale per lo stoccaggio del carbonio: la loro crescita contribuisce a rimuovere la CO2 dall’atmosfera e a ridurre i tassi di riscaldamento globale. Svolgono inoltre un ruolo cruciale nel raggiungimento degli obiettivi climatici internazionali, con l’attuazione di programmi di riforestazione e imboschimento per rimuovere il carbonio dall’atmosfera e compensare le emissioni umane di CO2 provenienti da settori difficili da abbattere, come l’aviazione e alcune industrie. Il successo di questi programmi dipende dal fatto che il carbonio venga immagazzinato in modo permanente nelle foreste, e gli incendi selvaggi minacciano questo aspetto.

Clima, Aie: -10 mld di tonnellate di CO2 entro il 2030 rispettando gli obiettivi della Cop28

Se gli obiettivi energetici stabiliti alla conferenza sul clima Cop28 tenutasi a Dubai lo scorso anno venissero pienamente attuati, si ridurrebbero le emissioni di gas serra e si accelererebbe in modo significativo la trasformazione del settore energetico globale. Lo conferma un nuovo rapporto dell’Aie (Agenzia internazionale dell’energia), che può servire da guida per trasformare gli impegni collettivi dei Paesi in azioni concrete.

Alla Cop28, quasi 200 Paesi hanno concordato di lavorare per raggiungere un’ambiziosa serie di obiettivi energetici globali nell’ambito del cosiddetto UAE Consensus, tra cui emissioni net zero entro il 2050, abbandonare i combustibili fossili, triplicare la capacità di energia rinnovabile, raddoppiare il tasso di miglioramento dell’efficienza energetica entro il 2030, accelerare la diffusione di altre tecnologie a basse emissioni. Il nuovo rapporto dell’Aie, ‘From Taking Stock to Taking Action: How to implement the COP28 energy goals’ ,è la prima analisi globale completa di ciò che si potrebbe ottenere mettendo in pratica gli obiettivi – e di come si può fare.

Il rapporto evidenzia la fattibilità del raggiungimento degli obiettivi di triplicazione e raddoppio, in particolare, anche se sottolinea che ciò dipenderà da ulteriori sforzi internazionali per creare le giuste condizioni di base, nonché dal fatto che i Paesi utilizzino l’UAE Consensus come bussola per la prossima serie di Contributi Nazionali Determinati (NDC) nell’ambito dell’Accordo di Parigi.

Gli obiettivi fissati da quasi 200 Paesi alla Cop28 “possono essere trasformativi per il settore energetico globale, mettendolo su una corsia preferenziale verso un futuro più sicuro, accessibile e sostenibile. Per garantire che il mondo non perda questa enorme opportunità, l’attenzione deve spostarsi rapidamente sull’attuazione”, ha dichiarato il direttore esecutivo dell’Aie, Fatih Birol. Come dimostra questo nuovo rapporto gli obiettivi energetici della Cop28 “dovrebbero gettare le basi per i nuovi obiettivi climatici dei Paesi nell’ambito dell’Accordo di Parigi: sono la stella polare di ciò che il settore energetico deve fare”. Inoltre, un’ulteriore cooperazione internazionale è “fondamentale per realizzare reti adeguate, un sufficiente stoccaggio dell’energia e un’elettrificazione più rapida, che sono parte integrante di una transizione energetica pulita rapida e sicura”.

Secondo il rapporto, l’obiettivo di triplicare la capacità globale di energia rinnovabile entro il 2030 è raggiungibile grazie a un’economia favorevole, a un ampio potenziale produttivo e a politiche forti. Ma una maggiore capacità non significa automaticamente che una maggiore quantità di elettricità rinnovabile ripulirà i sistemi energetici mondiali, abbasserà i costi per i consumatori e ridurrà l’uso dei combustibili fossili.

Secondo il documento, per sbloccare tutti i benefici dell’obiettivo di triplicazione, i Paesi devono impegnarsi a costruire e modernizzare 25 milioni di chilometri di reti elettriche entro il 2030. Il mondo avrebbe inoltre bisogno di 1 500 gigawatt (GW) di capacità di stoccaggio dell’energia entro il 2030, di cui 1 200 GW dovrebbero provenire da batterie di stoccaggio, un aumento di 15 volte rispetto al livello attuale.

Il rapporto, poi, sottolinea la necessità di un approccio più granulare e specifico per ogni Paese per raggiungere l’obiettivo critico di raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030. In questo modo si potrebbero tagliare i costi energetici globali di quasi il 10%, ridurre le emissioni di 6,5 miliardi di tonnellate e rafforzare la sicurezza energetica dei Paesi.

Tuttavia, per raggiungere questo obiettivo è necessario che i governi di tutto il mondo facciano dell’efficienza energetica una priorità politica molto più importante e si concentrino senza sosta su azioni chiave. Per le economie avanzate, ciò significa puntare sull’elettrificazione, dato che per raddoppiare l’efficienza è necessario portare la quota dell’elettricità nel consumo energetico globale al 30% entro il 2030. Il rapporto rileva che i veicoli elettrici e le pompe di calore sono molto più efficienti delle loro alternative tradizionali. Nel frattempo, per le economie emergenti, standard di efficienza più severi – in particolare per le apparecchiature di raffreddamento come i condizionatori d’aria – sono fondamentali per un progresso più rapido. E per i Paesi che non hanno pieno accesso alle moderne forme di energia, il raggiungimento dell’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile dell’accesso universale a fonti di cottura pulite riduce significativamente la domanda di energia, trasforma le vite e i mezzi di sussistenza e previene milioni di morti precoci.

Il rapporto rileva che il pieno raggiungimento degli obiettivi della Cop28 per le energie rinnovabili e l’efficienza ridurrebbe le emissioni globali di 10 miliardi di tonnellate entro il 2030, contribuendo a dare al mondo una possibilità di raggiungere gli obiettivi di temperatura dell’Accordo di Parigi.

Il documento è stato pubblicato durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, in concomitanza con la Settimana del clima. Nel corso della settimana, i leader del governo, dell’industria e della società civile si riuniscono per discutere le opportunità di una maggiore azione sui temi dell’energia, del clima e dello sviluppo sostenibile. Oltre a questi eventi, l’Aie ospiterà il terzo della serie di dialoghi di alto livello sulla transizione energetica in collaborazione con la presidenza della Cop29. Il dialogo con i decisori globali a New York si concentrerà sui risultati di questo rapporto e sulle prossime tappe.

Auto elettrica

Vendite auto ko in Europa. Acea chiede misure urgenti e cambia posizione su target CO2

L’Associazione europea dei costruttori di automobili (Acea) cambia posizione e non insiste più per un rinvio di due anni degli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 dell’Ue entro il 2025. Ora chiede che Bruxelles adotti misure urgenti per affrontare le crescenti sfide nel raggiungimento di questi obiettivi, poiché la quota di mercato dei veicoli elettrici a batteria continua a diminuire in tutta l’Unione. In una nota mette in luce una serie di preoccupazioni significative riguardo alla transizione verso una mobilità a zero emissioni e la sostenibilità del settore automobilistico europeo nel suo complesso.

Un aspetto fondamentale sottolineato da Acea è che la tecnologia dei veicoli e la disponibilità di modelli a zero emissioni non rappresentano più un collo di bottiglia per l’industria. Ci sono però criticità lungo la transizione: spicca l’insufficienza delle infrastrutture di ricarica elettrica e di rifornimento di idrogeno, che rappresentano un freno alla diffusione di massa dei veicoli elettrici. La scarsità di queste infrastrutture crea una notevole incertezza tra i consumatori, che esitano ad abbandonare i veicoli tradizionali per passare a soluzioni più ecologiche, spiega Acea, come emerge dalle immatricolazioni di agosto. Le vendite di nuove auto nell’Ue hanno registrato un forte calo (-18,3%) con risultati negativi nei quattro principali mercati della regione: perdite a due cifre sono state registrate in Germania (-27,8%), Francia (-24,3%) e Italia (-13,4%), con il mercato spagnolo in calo del 6,5%. In particolare le immatricolazioni di auto elettriche a batteria sono diminuite del 43,9% a 92.627 unità (rispetto alle 165.204 dello stesso periodo dell’anno scorso), con la loro quota di mercato totale scesa al 14,4% dal 21% dell’anno precedente.

Oltre a questo, l’associazione dei produttori di autoveicoli europei richiama l’attenzione sul problema della competitività dell’industria automobilistica del Vecchio Continente, che ha subito una forte erosione negli ultimi anni, un fenomeno confermato anche dal rapporto redatto dall’ex presidente della Bce, Mario Draghi. Le preoccupazioni non riguardano solo le infrastrutture fisiche, ma anche la fornitura di energia verde, che non è sufficientemente accessibile e a costi competitivi, e la necessità di incentivi fiscali e agevolazioni per l’acquisto di veicoli elettrici, strumenti cruciali per stimolare il mercato e incentivare i consumatori a scegliere soluzioni a basse emissioni. Un altro punto fondamentale evidenziato da Acea riguarda la fornitura di materie prime come le batterie e l’idrogeno, che non è ancora garantita in modo adeguato per sostenere l’aumento della produzione di veicoli elettrici.

Di fronte a questi ostacoli, Acea esprime preoccupazione per la fattibilità del raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 per auto e furgoni previsti entro il 2025. Le normative attuali, secondo l’associazione, non tengono conto dei cambiamenti significativi intervenuti nel contesto geopolitico ed economico globale negli ultimi anni. La rigidità di queste regole, che non riescono ad adattarsi agli sviluppi del mondo reale, rischia di aggravare ulteriormente le difficoltà di un settore già sotto pressione. Questo scenario solleva la prospettiva di multe multimiliardarie, evidenzia Acea, che potrebbero essere invece reinvestite per accelerare la transizione verso zero emissioni. Se le sanzioni non saranno evitate, il settore potrebbe essere costretto a ridurre inutilmente la produzione, con conseguenti perdite di posti di lavoro e un indebolimento della catena di fornitura europea.

La preoccupazione maggiore di Acea è, dunque, che l’industria automobilistica europea non possa permettersi di attendere la prevista revisione delle normative sulle emissioni, che è in programma per il 2026 o 2027. La nota dei produttori europei sottolinea che è necessaria “un’azione urgente” e concreta già nell’immediato per invertire la tendenza negativa attuale e per ripristinare la competitività dell’industria dell’Ue. Particolarmente importante, secondo Acea, sarà anche una “revisione anticipata delle normative per i veicoli pesanti”, in modo da garantire che le infrastrutture necessarie per camion e autobus siano ampliate tempestivamente, affinché anch’essi possano contribuire agli obiettivi di riduzione delle emissioni. Acea, quindi, chiede una discussione per un “pacchetto di misure di sostegno a breve termine” che possa contribuire al raggiungimento degli obiettivi di CO2 per auto e furgoni entro il 2025. Inoltre, l’associazione ribadisce l’importanza di una “revisione rapida, completa e solida delle normative sulla CO2” sia per auto che per veicoli pesanti, oltre a una legislazione secondaria mirata, al fine di avviare in modo deciso la transizione verso una mobilità a emissioni zero e assicurare un futuro industriale sostenibile per l’Europa.

I grandi vecchi che stanno dietro l’ambientalismo estremista

Continuo a pensare che dietro l’estremismo ambientalista, ideologico ed astratto, che purtroppo ha orientato negli ultimi dieci anni anche le politiche europee contro il climate change e per il così detto green deal, ci siano anche alcuni “grandi vecchi”, sconfitti nel loro credo dalla storia, ma che hanno rivestito lo spirito e il pregiudizio anticapitalista e anti-impresa con le bandiere dei verdi.

La lettura di un libro-intervista importante per il peso degli autori, Noam Chomsky e Robert Pollin: ‘Climate Crisis and the Global Green New Deal’ (2020 ed. Verso Books), mi ha definitivamente convinto di ciò e mi ha fatto ancora di più comprendere che se la battaglia contro il climate change per preservare il pianeta a beneficio delle future generazioni non si libererà al più presto del furore e dell’estremismo ideologico di questi grandi vecchi è destinata a fallire, travolta dagli schematismi astratti e dalle reazioni di rigetto che tutti gli estremismi provocano.

Noam Chomsky (Philadelphia 1928) non ha bisogno di presentazioni. È il maggiore linguista vivente e uno dei punti di riferimento della sinistra radicale americana e internazionale. È professore emerito all’MIT (Massachusetts Institute of Technology).

Robert Pollin (Washington 1950) è professore di Economia e Co-direttore del Political Economy Research Institute (PERI) alla University of Massachusetts Amherst e da molti anni si occupa di green economy.

I due intellettuali americani, veri e propri maîtres à penser cui si ispirano vasti settori della sinistra ambientalista, confermano nel loro libro-intervista che vi è una corrente di pensiero vasta e influente che ha trasformato le politiche ambientali e le lotte al cambiamento climatico in una moderna religione neopagana che di fatto demonizza il progresso economico e tecnologico, e che predica per il futuro sacrifici dolorosi oppure l’Apocalisse imminente. Non a caso la traduzione italiana del loro libro reca come titolo “Minuti contati”.

La tesi di fondo è che occorre considerare la crisi climatica come il prodotto di un sistema che ha guidato l’economia da più di 500 anni. Noam Chomsky afferma senza tentennamenti che “la tendenza intrinseca del capitalismo è degradare l’ambiente da cui dipende la vita. La logica capitalistica, se priva di vincoli, è una ricetta per la distruzione”; e ancora, collegandosi e rispolverando nostalgicamente i dogmi del marxismo-leninismo, afferma nell’intervista che “gli elementi fondanti del capitalismo conducono direttamente alla distruzione delle basi della vita sociale”. E prosegue: “Il modello occidentale di industrializzazione è stato fondato sulla schiavitù (con la creazione dell’impero del cotone e degli elementi costitutivi di gran parte dell’economia moderna), sul carbone (che si trovava in abbondanza in Inghilterra e altrove) e nel ventesimo secolo sul petrolio”.

Come non cogliere, in queste affermazioni, non solo le radici di un ambientalismo fondamentalmente anticapitalista ma anche quelle della così detta “cancel culture” che bolla tutta la storia occidentale come un abominio?

Le ricette di Chomsky e Pollin, quando gli autori cercano di passare alla pars construens, sono quanto mai vaghe e confuse. Vengono scartate, come strumenti per raggiungere la decarbonizzazione dell’economia, tutte le tecnologie non rinnovabili (nucleare, carbon capture, biocombustibili ecc.): e anche in questo caso non possiamo non ricollegare tale rifiuto alla battaglia campale, ancora in corso in Europa, per negare il concetto di “neutralità tecnologica” che è stato combattuto a lungo dall’ambientalismo radicale.

Nel mio piccolo vorrei, proprio partendo dal tema delle tecnologie, fare le mie principali contestazioni al pensiero anticapitalista e antioccidentale dei due intellettuali  statunitensi.

Non si tratta tanto di fare una difesa di principio del capitalismo e dell’ideologia neo-liberista, che di fatto non ha governato adeguatamente gli effetti della globalizzazione soprattutto nei confronti di vasti strati sociali occidentali che oggi soffrono e si ribellano.

Né si tratta d’altra parte di ricordare che proprio la globalizzazione capitalista ha tolto dalla miseria miliardi di persone nel mondo, soprattutto nelle economie emergenti, ed ha allungato la speranza di vita media come mai era successo nella storia dell’umanità.

Vorrei strettamente rimanere sul tema del climate change.

Oggi in realtà i più grandi sforzi di decarbonizzazione sono condotti proprio in occidente, in Europa e negli Stati Uniti d’America, dove sono proprio le imprese capitalistiche, in moltissimi settori, che fanno ricerca e innovazione per raggiungere processi e prodotti industriali sempre più sostenibili. Come si è già detto, non mancano gravi problemi di protezione di tutti quei settori industriali e di quelle classi sociali, già indeboliti dalla globalizzazione e ancor più colpiti dalle conseguenze di processi di deindustrializzazione provocati dalla gestione ideologica e estremista di tali politiche: “Voi parlate della fine del mondo ma noi ci preoccupiamo della fine del mese. Come sopravviveremo alle vostre riforme?” è questa la domanda pressante a cui bisogna dare risposte concrete onde evitare un rigetto totale delle politiche ambientaliste.

Ma nonostante tutti i problemi e le difficoltà l’Occidente andrà avanti, correggendo magari gli approcci più astratti e insensati della decarbonizzazione, ma andrà avanti con la ricerca, l’innovazione, lo sviluppo di nuove tecnologie e la crescita necessaria per finanziare gli enormi investimenti necessari a combattere il cambiamento climatico, perché tutto ciò fa parte del corredo genetico del capitalismo. E saranno le imprese che svilupperanno questo programma, a condizione di non essere criminalizzate e contrastate fino a farle chiudere.

Noam Chomsky e Robert Pollin guardano con diffidenza a tutto ciò. È talmente grande il pregiudizio anticapitalistico che si ha la sensazione che leggano la maggior parte di questi processi come “greenwashing”.

Ma c’è un’altra critica ancora più sostanziale al loro ragionamento: non vi è in esso alcuna seria considerazione di ciò che sta effettivamente avvenendo nel mondo.

I dati sui consumi energetici del 2023 a livello mondiale ci dicono infatti due cose: la prima è che le fonti rinnovabili crescono in tutto il mondo a doppia cifra; ma la seconda è che parallelamente cresce anche il consumo di combustibili fossili, petrolio, gas e carbone.

La spiegazione di tutto ciò è semplice. I consumi totali di energia crescono soprattutto perché trainati dalle economie emergenti, come Cina e India, e le rinnovabili non riescono neanche a coprire l’aumento della domanda. Così i combustibili fossili continuano a soddisfare più dell’80% (!) del consumo totale di energia a livello mondiale: esattamente quanto succedeva 20 anni fa in termini percentuali, ma con il piccolo problema che i valori assoluti si sono più che raddoppiati, con le conseguenze facilmente immaginabili sulle emissioni totali di CO2.

Ciò naturalmente è dovuto anche al fatto che non basta solo l’elettricità prodotta dalle rinnovabili, perché ci sono settori come quelli del trasporto aereo, del trasporto marittimo, di quello su gomma oppure di taluni processi industriali non elettrificabili e del riscaldamento domestico che continuano ad avere bisogno del petrolio e/o dei suoi derivati.

Risultato: le emissioni totali continuano ad aumentare e hanno registrato il loro picco storico proprio nel 2023.

Intere aree del mondo, Asia e Africa in primis, hanno un’enorme fame di energia, una fame di energia che non può essere soddisfatta solo dal sole e dal vento, che sono fonti non programmabili, ed hanno bisogno di altre fonti capaci di coprirne la temporanea assenza (cioè quando non c’è il sole e quando non c’è il vento). Ed è questa una delle ragioni per le quali ci si torna ad occupare intensamente, in molte nazioni del mondo compresa l’Italia, di nucleare e delle sue nuove tecnologie di quarta generazione con gli SMR (small reactor) e con i microreactor, molto più sicuri e meno costosi.

I “grandi vecchi” sembrano non accorgersi di questa contraddizione e, forse in omaggio ad un terzomondismo duro a morire, pongono con forza il tema della decarbonizzazione dei paesi occidentali, ed omettono di fare altrettanto con riferimento a quei Paesi che sono già i colossi economici di oggi come Cina, India, Indonesia, Brasile, Turchia e Russia, cioè tutti quei paesi che rappresentano la maggioranza della popolazione mondiale, la stragrande maggioranza delle emissioni di CO2 nell’atmosfera e che esplicitamente si pongono come un’alternativa all’occidente.

Se oggi per un colpo di bacchetta magica tutta l’industria europea chiudesse facendo sparire le sue emissioni di CO2, che son più o meno il 3,5% di tutte le emissioni mondiali (!), ciò non servirebbe a nulla perché le stesse aumentano nel globo annualmente della stessa quantità.

Infine, Chomsky e Pollin fanno sorridere quando scartano per l’Occidente il nucleare civile, per la sua presunta vicinanza a questioni militari, e nulla si sentono di dire del continuo arricchimento dell’uranio fatto in Iran e in altri stati canaglia per arrivare alla bomba.

idrogeno

L’idrogeno green non è sempre…così verde

E’ considerata una delle fonti di energia pulita più promettenti per il futuro, ma non sempre l’idrogeno verde – cioè prodotto a partire da fonti rinnovabili – è in grado di azzerare o quasi le emissioni di CO2.

A rivelarlo è una ricerca pubblicata su Nature Energy da Kiane de Kleijne della Radboud University e della Eindhoven University of Technology. “Se si calcola l’intero ciclo di vita della produzione e del trasporto dell’idrogeno verde, i guadagni in termini di CO2 risparmiata possono essere deludenti. Tuttavia, se l’idrogeno verde viene prodotto da elettricità molto pulita e a livello locale, può davvero contribuire a ridurre le emissioni”, spiega la ricercatrice.

L’Unione europea punta a produrre 10 milioni di tonnellate di idrogeno verde e a importarne altri 10 milioni entro il 2030. Merito, dice la scienziata, della sua “versatilità” e delle “sue numerose applicazioni. Ma purtroppo prevedo ancora alcuni ostacoli sulla strada”. Ostacoli che vanno ricercati nell’intero ciclo di vita di questa forma di energia per determinarne l’impatto ambientale globale in tutte le sue fasi.

Per oltre un migliaio di progetti di idrogeno verde, De Kleijne ha calcolato le emissioni di gas serra associate alla produzione, compresa quella, ad esempio, di pannelli solari, turbine eoliche e batterie per la fornitura di energia, nonché il trasporto tramite condutture o navi. L’idrogeno verde viene prodotto scindendo l’acqua in ossigeno e idrogeno in un elettrolizzatore utilizzando elettricità verde e può poi essere utilizzato come materia prima o come combustibile. Quello ricavato dal gas naturale è già ampiamente utilizzato come materia prima, ad esempio nell’industria chimica per produrre metanolo e ammoniaca per i fertilizzanti.

Il vantaggio dell’idrogeno verde è che quando si scinde l’acqua, oltre all’idrogeno, viene rilasciato solo ossigeno e niente CO2. “Tuttavia, ciò richiede grandi quantità di energia verde”, afferma la ricercatrice. “È possibile ridurre le emissioni solo se si utilizza energia verde, come quella eolica o solare. Ma anche in questo caso, le emissioni derivanti dalla produzione di turbine eoliche e pannelli solari si sommano notevolmente. Se si considera l’intero ciclo di vita in questo modo, l’idrogeno verde spesso, ma certamente non sempre, porta a un aumento di CO2″. I guadagni di CO2 sono di solito maggiori quando si utilizza l’energia eolica piuttosto che quella solare. La situazione migliorerà ulteriormente in futuro, poiché verrà utilizzata una maggiore quantità di energia rinnovabile per produrre, ad esempio, le turbine eoliche, i pannelli solari e l’acciaio per l’elettrolizzatore, dice la scienziata.

Ma non solo. La produzione di idrogeno produce le emissioni più basse nei luoghi in cui c’è molto sole o vento, come il Brasile o l’Africa. L’aspetto negativo è che l’idrogeno deve essere trasportato in Europa. Si tratta di un’operazione tecnologicamente impegnativa e che può creare molte emissioni aggiuntive.

Per De Kleijne, quindi, sarebbe scorretto affermare che questa forma di energia molto promettente sia net zero. “Esaminando le emissioni nell’intero ciclo di vita – conclude – possiamo cercare il compromesso migliore tra le tecnologie e identificare i punti in cui è possibile apportare miglioramenti nella catena”.

emissioni

Clima, calano emissioni di CO2 in Cina: è la prima volta dopo la pandemia

Per la prima volta dalla fine della pandemia di Covid-19 e dalla conseguente ripresa economica, le emissioni di CO2 sono diminuite in Cina. Il calo di marzo è dovuto all’aumento della capacità di energia rinnovabile, che ha coperto la quasi totalità della crescita della domanda di elettricità in questo periodo, e anche al crollo dell’edilizia.
Se la capacità di energia rinnovabile continuerà a crescere a livelli record, le emissioni della Cina potrebbero raggiungere il picco nel 2023, secondo un’analisi di Lauri Myllyvirta del Centre for Energy and Clean Air Research (CREA).

In uno studio pubblicato sul sito specializzato Carbon Brief, il ricercatore indica che le emissioni di anidride carbonica della Cina sono diminuite del 3% nel marzo 2024 rispetto all’anno precedente. Nel primo trimestre, le emissioni sono ancora superiori a quelle dell’anno precedente, ma questo si spiega con una base di confronto ancora molto bassa nei mesi di gennaio e febbraio 2023, a seguito dell’abolizione delle restrizioni Covid-19 nel dicembre 2022. Marzo è “il primo mese a dare una chiara indicazione dell’andamento delle emissioni dopo il rimbalzo post-Covid”, secondo lo studio pubblicato martedì. È anche in linea con le proiezioni dello scorso anno e suggerisce alcune tendenze chiave.

Le emissioni del settore elettrico si sono stabilizzate grazie all’aumento della produzione di energia solare ed eolica, mentre la produzione di acciaio è diminuita dell’8% e quella di cemento del 22% rispetto all’anno precedente, riflettendo un rallentamento del settore edilizio che si prevede continuerà.

La crescente adozione di veicoli elettrici in Cina – il 10% delle auto in circolazione secondo i dati dei fornitori – continua a pesare sulla domanda di petrolio.

Sebbene la domanda di elettricità sia aumentata, in particolare a causa dell’acquisto di condizionatori d’aria, quasi il 90% di quella aggiuntiva a marzo è stata soddisfatta da fonti di energia rinnovabili, sottolinea Lauri Myllyvirta.

Nonostante la crescita della capacità, l’energia eolica e solare rappresentano ancora solo il 15% della produzione di elettricità in Cina e le autorità stanno lavorando per integrare maggiormente queste fonti nella rete.

La traiettoria delle emissioni in Cina rimane tuttavia incerta, con gli esperti che non riescono a stabilire se l’installazione di capacità di energia rinnovabile aumenterà o rallenterà in futuro. Secondo lo studio, inoltre, gli obiettivi governativi di crescita economica suggeriscono che Pechino potrebbe ancora registrare un aumento delle emissioni.

La Cina continua a investire nel carbone e, sebbene la crescita della capacità di carbone sia leggermente rallentata nel primo trimestre di quest’anno, un numero significativo di centrali elettriche è ancora in costruzione.

Clima, l’Appennino centrale emette più CO2 di quanta riesca ad assorbirne

Gli Appennini centrali rilasciano più CO2 di quanto riescando ad assorbirne. A rivelarlo è uno studio, pubblicato su Nature Geoscience, condotto da Erica Erlanger e Niels Hovius del Centro di Ricerca Tedesco per le Geoscienze GFZ e da Aaron Bufe della Ludwig-Maximilians-Universität München. La ‘colpa’ è delle rocce profonde.

Le montagne tettonicamente attive, proprio come gli Appennini, svolgono un ruolo importante nella regolazione naturale della CO2 nell’atmosfera. Qui hanno luogo processi in competizione tra loro: sulla superficie terrestre, l’erosione determina processi meteorologici che assorbono o rilasciano CO2, a seconda del tipo di roccia. In profondità, il riscaldamento e la fusione delle rocce carbonatiche portano al rilascio di CO2 in superficie. E sulle nostre montagne, i ricercatori hanno studiato e bilanciato per la prima volta tutti questi processi in un’unica regione, utilizzando, tra l’altro, le analisi del contenuto di CO2 nei fiumi e nelle sorgenti di montagna.

Gli scienziati hanno scoperto che gli agenti atmosferici in questa regione portano a buon un assorbimento complessivo di CO2, ma i processi vicini alla superficie determinano un bilancio positivo (cioè viene assorbita più anidride carbonica di quanta venga emessa) solo nelle aree con una crosta spessa e fredda. Sul lato occidentale dell’Appennino centrale, la crosta è più sottile e il flusso di calore è maggiore. Lì, il degassamento di CO2 in profondità è fino a 50 volte superiore all’assorbimento attraverso gli agenti atmosferici. Quindi, nel complesso, il paesaggio analizzato è un emettitore di CO2. La struttura e la dinamica della crosta terrestre, quindi, controllano il rilascio di CO2 qui in modo più forte rispetto agli agenti atmosferici chimici.

Nell’Appennino centro-occidentale, lo spessore della crosta è di circa 20 chilometri e il flusso di calore arriva a oltre 100 milliwatt per metro quadrato, mentre la crosta a est ha uno spessore di oltre 40 chilometri, con un flusso di calore di circa 30 milliwatt per metro quadrato.

I ricercatori hanno prelevato un totale di 104 campioni d’acqua nei sistemi fluviali del Tevere occidentale e dell’Aterno-Pescara orientale, di cui 49 nell’estate 2020 e 55 nell’inverno 2021, coprendo le stagioni più calde e più secche e le stagioni più umide e più fredde per stimare i flussi minimi (estate) e massimi (inverno) di CO2.

I campioni d’acqua sono adatti perché i fiumi e le sorgenti trasportano il carbonio, che proviene sia dalle profondità sia dalle reazioni atmosferiche vicino alla superficie. L’analisi chimica dei campioni ha incluso la determinazione dell’abbondanza relativa di vari isotopi del carbonio. Questi possono fornire informazioni sul fatto che il carbonio provenga da una pianta, dall’atmosfera o sia stato rilasciato da una roccia subdotta.

Che ne è stato degli obiettivi della Cop15? L’Italia li ha raggiunti tutti

Diciannove Paesi su 34 non sono riusciti a rispettare pienamente gli impegni climatici assunti 15 anni anni fa a Copenaghen con obiettivi al 2020. E’ quanto emerge da un nuovo studio condotto da ricercatori della University College London (Ucl), pubblicato su Nature Climate Change. Il team ha confrontato le emissioni nette di carbonio effettive di oltre 30 nazioni con gli obiettivi di riduzione delle emissioni promessi nel 2009 durante il vertice sul clima di Copenhagen. E da questa analisi l’Italia esce vincente.

Il lavoro guidato dai ricercatori dell’Ucl e dell’Università Tsinghua è il primo sforzo per valutare in modo esaustivo in che misura i Paesi sono stati in grado di rispettare gli impegni di riduzione del Contributo Nazionale Determinato assunti durante la COP15.

Delle 34 nazioni analizzate nello studio, 15 hanno raggiunto con successo i loro obiettivi (Bulgaria, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti.), mentre 12 hanno fallito completamente (Australia, Austria, Canada, Cipro, Irlanda, Giappone, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svizzera). I restanti sette Paesi (Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Ungheria, Lussemburgo, Malta e Polonia) rientrano in una categoria che gli autori dello studio hanno definito “gruppo a metà strada”: nazioni che hanno ridotto le emissioni di carbonio all’interno dei propri confini, ma lo hanno fatto in parte utilizzando il commercio per spostare le emissioni che avrebbero prodotto in altri Paesi. Conosciuta come “rilocalizzazione delle emissioni di carbonio” o “trasferimento di carbonio”, questa esternalizzazione è una preoccupazione crescente tra i responsabili delle politiche ambientali.

Per ‘seguire’ questa ‘fuga’ di CO2, i ricercatori hanno utilizzato un metodo di tracciamento delle emissioni “basato sul consumo” che fornisce uno schema più completo per calcolare le emissioni totali di carbonio di un Paese. Non tiene conto solo delle emissioni derivanti dalle attività economiche all’interno dei confini territoriali della nazione, ma anche dell’impronta di carbonio dei beni importati e prodotti all’estero.

L’autore principale, il professor Jing Meng (UCL Bartlett School of Sustainable Construction), spiega che “la nostra preoccupazione è che i Paesi che hanno faticato a raggiungere gli impegni presi nel 2009 incontreranno probabilmente difficoltà ancora più consistenti nel ridurre ulteriormente le emissioni.”

Questi obiettivi di emissione sono stati fissati nel 2009 al vertice internazionale sul clima COP15 di Copenaghen. In quell’occasione, nonostante l’impossibilità di raggiungere un accordo globale, i singoli Paesi del mondo hanno stabilito i propri obiettivi individuali di riduzione delle emissioni. Ciò significa che gli obiettivi stabiliti variano notevolmente, dal modesto ma riuscito impegno della Croazia di ridurre le emissioni di carbonio del 5%, allo sforzo relativamente ambizioso ma infruttuoso della Svizzera di abbassarle 20-30% entro il 2020, rispetto ai livelli del 1990.

La ricerca evidenzia anche le disparità tra i diversi punti di partenza dei Paesi. Sebbene quattro Paesi dell’Europa orientale – Estonia, Lituania, Lettonia e Romania – siano riusciti a raggiungere i loro obiettivi, i ricercatori sottolineano che ciò è dovuto soprattutto al fatto che gran parte dell’industria della regione utilizzava tecnologie obsolete e altamente inefficienti, risalenti ai primi anni ’90, che sono state abbandonate di recente.

Inoltre, i ricercatori avvertono che i Paesi che hanno faticato di più a raggiungere gli obiettivi della COP15 probabilmente incontreranno sfide ancora più grandi in futuro, dato che dovranno far fronte a una domanda di energia ancora maggiore con l’ulteriore espansione e sviluppo delle loro economie.

I principali modi in cui i Paesi sono riusciti a raggiungere i loro obiettivi di emissione sono stati l’aumento della quantità di energia pulita prodotta, in particolare la transizione dal carbone, e un uso più efficiente dell’energia prodotta. I Paesi che non sono riusciti a raggiungere i loro obiettivi sono stati in gran parte incapaci di farlo perché l’aumento del consumo associato all’aumento del Pil pro capite e alla crescita della popolazione ha superato i loro sforzi per aumentare l’efficienza.

Il più recente Accordo di Parigi, firmato nel 2015 alla COP21, ha stabilito un quadro globale più ambizioso e completo per ridurre le emissioni di carbonio che ha sostituito questi contributi determinati a livello nazionale.

Clima, l’aumento di CO2 e di metano minaccia il Mediterraneo

L’area del Mediterraneo è sempre più a rischio a causa del continuo aumento delle emissioni di anidride carbonica (CO2) e di metano (CH4). È quanto emerge dal Report dell’Osservatorio Climatico ENEA ‘Madonie – Piano Battaglia’ che dal 2005 effettua misure settimanali della concentrazione dei due gas e di altri parametri climatici. I dati, che dimostrano la minaccia per il Mediterraneo, sono sovrapponibili a quelli rilevati dall’Osservatorio ENEA di Lampedusa e, su scala globale, da differenti istituzioni internazionali e sono stati presentati alla vigilia della Giornata Meteorologica Mondiale che ricorre domani, 23 marzo 2024, quest’anno dedicata al tema ‘In prima linea nell’azione per il clima’.

“La concentrazione atmosferica di CO2 a Madonie-Piano Battaglia è aumentata dal 2005 con un tasso di crescita di 2.16 ppm/anno a causa delle emissioni antropiche”, evidenzia Francesco Monteleone del Laboratorio ENEA di Osservazioni e misure per l’ambiente e il clima. “Inoltre – aggiunge – si osserva una forte crescita anche per la concentrazione atmosferica di metano, e lo stesso trend si sta registrando, con una crescita accelerata negli ultimi 15 anni, anche su scala globale”.

L’alta quota, la posizione geografica, l’assenza di contaminazioni locali e l’accuratezza delle misure fanno dell’Osservatorio Climatico ENEA un sito di eccellenza per il monitoraggio e lo studio dei meccanismi legati al cambiamento climatico su scala regionale e globale. Per queste caratteristiche l’Osservatorio ha ottenuto il riconoscimento di stazione regionale, rappresentativo per tutta l’area del Mediterraneo centrale, nell’ambito del Global Atmosphere Watch (GAW), che è la rete mondiale per lo studio del clima globale dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO).

L’Osservatorio Climatico di Piano Battaglia dispone di vari strumenti di misura tra cui una stazione meteorologica e un sistema di campionamento dell’aria per determinare la concentrazione di CO2, metano e monossido di carbonio, i cui campioni vengono spediti e analizzati all’Osservatorio Climatico ENEA di Lampedusa. I dati messi a disposizione della rete mondiale del WMO sono utili alle amministrazioni locali per pianificare le azioni volte a una gestione sostenibile del territorio e a sensibilizzare la popolazione.