
Israele si trova ad affrontare una crisi energetica significativa nel bel mezzo del conflitto con l’Iran, con gravi conseguenze per il proprio apparato militare e per la tenuta dei servizi essenziali. I recenti attacchi con droni e missili hanno messo fuori uso la principale raffineria del Paese, situata a Haifa, lasciando Israele senza impianti operativi di trasformazione del greggio e costringendolo a ricorrere in modo massiccio alle importazioni di carburanti. Secondo un’analisi di S&P Global Commodity Insights, l’interruzione dell’attività a Haifa, unita alla manutenzione programmata della seconda raffineria di Ashdod, ha trasformato Israele da produttore quasi autosufficiente a importatore netto di prodotti petroliferi. L’impianto di Haifa, il più grande del Paese, è stato colpito in modo diretto a metà giugno: i danni alla vicina centrale elettrica e alle infrastrutture di oleodotti hanno reso necessaria l’interruzione completa delle operazioni.
Nel frattempo, la raffineria di Ashdod — con una capacità di 110.000 barili al giorno — dovrebbe riprendere le attività tra circa due settimane, ma ciò non è sufficiente a garantire l’autonomia energetica del Paese in un momento così delicato. Il ministro dell’Energia Eli Cohen ha dichiarato che Haifa potrebbe tornare operativa “nel giro di poche settimane”, ma fonti industriali vicine a Bazan, la società che gestisce l’impianto, sottolineano che è ancora in corso una valutazione dei danni e che non esiste una tempistica certa per la riapertura. Prima dell’attacco, la raffineria operava già sotto la sua capacità normale — circa 150.000 barili al giorno, contro una capacità massima di 197.000 — dopo una recente fase di manutenzione.
Nonostante questo, serviva comunque circa il 60% del gasolio e il 50% della benzina utilizzati per i trasporti in Israele, rappresentando un pilastro dell’equilibrio energetico nazionale. Il fermo impianto ha costretto il governo a incrementare in modo drastico le importazioni via mare. Le stime di S&P indicano che le importazioni di benzina potrebbero aumentare da 10.000 a 50.000 barili al giorno, mentre quelle di gasolio da 10.000 a 60.000 barili. Le richieste sul mercato mediterraneo da parte di Israele sono già in crescita: Bazan sarebbe alla ricerca di almeno 60.000 tonnellate di carburante per aerei e diesel, e potrebbe addirittura essere costretta a rivendere il greggio inutilizzato per evitare un accumulo eccessivo.
La chiusura dei giacimenti di gas offshore Karish e Leviathan, in seguito ai raid iraniani, ha ulteriormente complicato la situazione, costringendo il Paese a fare maggiore affidamento su generatori alimentati a gasolio per garantire la stabilità della rete elettrica. In questo scenario, Israele ha dovuto importare per la prima volta dopo mesi carburante per aerei, per assicurare la continuità operativa delle sue forze armate. Prima del conflitto, gli arrivi di questo tipo si verificavano solo una volta ogni tre o quattro mesi; ora si stima un’impennata dei volumi fino a 10.000 barili al giorno.
Le infrastrutture portuali, già sotto pressione, potrebbero rivelarsi insufficienti a gestire un flusso così elevato e continuo di prodotti raffinati, specialmente se la guerra si dovesse protrarre. Con le scorte strategiche sotto osservazione e le capacità interne ridotte al minimo, il governo israeliano ha iniziato a guardare agli alleati occidentali per un supporto d’emergenza. Il Regno Unito ha confermato di aver inviato aerei cisterna in Medio Oriente, mentre anche gli Stati Uniti avrebbero trasferito mezzi per il rifornimento in volo verso l’Europa. Basterà per alleviare la vulnerabilità energetica di Israele?