La riflessione sulle prospettive dell’economia europea, e al suo interno su quelle dell’economia italiana, non può prescindere dal contesto internazionale in cui ci troviamo ad operare, da alcuni elementi macroeconomici di oggettiva evidenza, ma anche dalla comprensione di alcune dinamiche e specificità che se lette con ottimismo e spirito positivo ci possono dare la carica per affrontare il futuro.
Il 2023 che si è appena chiuso è stato certamente un anno di forte rallentamento anche per l’economia europea che ha visto la locomotiva tedesca praticamente in recessione, con tutto ciò che questo significa per un Paese come il nostro strutturalmente legato alla Germania. La stagnazione del nostro primo mercato di sbocco nei primi dieci mesi dell’anno si è tradotta in minori esportazioni per 1,8 miliardi di euro. Una situazione analoga potrebbe riprodursi almeno per i primi sei mesi del 2024 e ciò preoccupa le nostre principali provincie industriali esportatrici in Germania, come ad esempio Brescia che di tutte è la prima.
Il rallentamento non è soltanto causato dal ciclo economico che volge verso il basso, ma è anche determinato da alcune situazioni straordinarie e da un dato strutturale che riguarda la condizione competitiva dell’Europa rispetto al resto del mondo.
Veniamo prima di tutto alla situazione internazionale che si presenta ricca di incognite ed è senza dubbio straordinaria.
Due conflitti in corso.
Il primo, quello scaturito dall’invasione russa dell’Ucraina, ha aperto una grave crisi alle porte di casa ed ha messo e metterà a dura prova l’Unione Europea nei prossimi anni, aprendo interrogativi ansiogeni sul suo ruolo geopolitico, sulla sua sicurezza strategica, sulla sua prospettiva economica e sul suo modello di sviluppo.
Il secondo conflitto, causato in Medio Oriente dalla terrificante aggressione di Hamas ad Israele del 7 ottobre scorso, rischia di avere importanti ripercussioni soprattutto nell’area del Mediterraneo e nel Golfo.
La mia deformazione professionale mi porta a riflettere su come queste due nuove crisi internazionali e l’incertezza ad esse connessa si ripercuotano sul tema che per me è cruciale, e cioè quello della competitività del sistema economico e industriale europeo messo a confronto con quelli delle altre aree del mondo.
Qui sta il dato strutturale che si è richiamato poc’anzi.
L’Europa soffre da molto tempo di un deficit di competitività che si è plasticamente manifestato nel minor tasso di crescita che caratterizza da almeno 15 anni l’Unione Europea rispetto alle altre grandi economie mondiali.
Usa e Cina hanno corso molto di più. Anche in questo momento gli Stati Uniti stanno registrando un’eccellente crescita del PIL e dell’occupazione, e la Cina, che viene ritenuta in rallentamento, cresce del 3% nel 2023.
Questa crescita debole e lenta dell’Europa (che a ben vedere è il vero elemento che mette in crisi non l’ideale dell’Unione ma i modi e le politiche con cui è stata portata avanti nel tempo) si è prodotta nonostante due condizioni macroeconomiche particolarmente favorevoli e che probabilmente non sono ripetibili nel breve periodo:
- Un bassissimo livello di inflazione e dei tassi di interesse, che in certi periodi sono stati addirittura negativi;
- Un’energia a prezzi bassi grazie al gas russo particolarmente conveniente soprattutto per la prima economia industriale dell’Unione e cioè la Germania.
Nonostante questi vantaggi, però, qualcosa non ha funzionato. Ciò è apparso del tutto evidente quando, all’improvviso, soprattutto a causa del conflitto russo-ucraino che ha fatto esplodere il prezzo dell’energia e delle materie prime creando forti impulsi inflazionistici, l’Europa si è ritrovata con due dei pilastri fondamentali del suo modello di business saltati (interessi bassi o nulli, e basso prezzo dell’energia ).
Cosa non ha funzionato nel modello europeo? Ripeto da tempo che la colpa più grande che addebito all’impostazione di Bruxelles è quella della presunzione: “Siamo i più bravi, dobbiamo insegnare a tutti come si fa, le nostre regole si imporranno a livello globale”. Un’impostazione insensata per un continente con una popolazione in forte invecchiamento, con processi di deindustrializzazione in corso, che arranca sul fronte della innovazione tecnologica e che rischia di rimanere solo il più grande e ricco (per ora) mercato del mondo.
In famiglia da noi si dice che l’arroganza e la presunzione sono sempre un peccato ma nel business sono un peccato mortale.
Questa presunzione di un primato economico e industriale che ormai non esiste più ha fatto sì che l’Unione Europea, tutta concentrata sulla finanza, sull’austerità e sulla disciplina di bilancio, sul cambiamento climatico e sui diritti, non abbia avuto alcuna attenzione e passione per l’industria manifatturiera. Si è avuta anzi spesso la sensazione che in vasti settori della politica e della burocrazia europee l’industria, e in particolare quella di base (acciaio, chimica, cemento, carta, vetro ecc.) da cui dipendono tutte le filiere a valle, sia stata percepita come un vero fastidio da ridimensionare progressivamente fino ad eliminarlo.
Abbiamo registrato un deficit di cultura industriale, o talvolta un pregiudizio antindustriale, che ha causato incoscienza o insofferenza rispetto al rischio di scenari di deindustrializzazione; scenari che invece si stanno realizzando proprio per l’insipienza delle politiche comunitarie.
Questa assenza di cultura e visione e questa presunzione di essere sempre i “primi della classe” ha causato e sta causando gravi danni.
Per fare un esempio, la gestione insensata della pur giusta battaglia per la transizione energetica e per la decarbonizzazione, che ha puntato tutto sull’elettrico negando il principio della neutralità tecnologica, ha creato nuove dipendenze strategiche (per il litio, il nichel, il rame, le terre rare) ed ha spiazzato gravemente il settore automotive, che rischia un grave deficit competitivo rispetto all’invasione prossima ventura di auto elettriche cinesi. Qualche buontempone addirittura in questi giorni sostiene la tesi che si debbano dare incentivi ai fabbricanti cinesi di auto elettriche perché vengano in Europa ad insediare le loro fabbriche!
Gli anni futuri saranno durissimi perché l’Unione Europea dovrà affrontare un confronto molto difficile con Usa e Cina, e in prospettiva India, sulla leadership economica. Il terreno di battaglia è quello dell’innovazione, dell’intelligenza artificiale (IA), delle altre tecnologie avanzate come le biotecnologie o le tecnologie verdi, spesso sussidiate direttamente o indirettamente sia in Cina che negli Usa. Si pensi ai recenti provvedimenti (IRA, o Inflation Reduction Act ) adottati dall’amministrazione Biden per sostenere le imprese americane.
Si tratterà di una battaglia per la sopravvivenza economica, politica e geostrategica. Per affrontarla con qualche speranza di successo, l’Europa dovrà compiere uno straordinario salto di qualità nella comprensione dei fenomeni e nella capacità di azione.
Il 2024 potrebbe essere l’anno della svolta perché, al di là degli schieramenti politici che vinceranno le prossime elezioni europee del giugno, io confido che in Europa si affermi una nuova visione e cultura.
Dobbiamo lavorare per imporre la cultura della competitività e della crescita, della cooperazione economica occidentale ed euroatlantica, dell’attenzione spasmodica al capitale umano e alla formazione della forza lavoro, anche attraverso una gestione intelligente e condivisa dei flussi migratori, ed un nuovo approccio più pragmatico e meno ideologico alla transizione energetica.
Dobbiamo lavorare perché questa visione si imponga nella stragrande maggioranza delle famiglie politiche europee, nella società civile, nelle scuole, nei giovani, in tutti gli operatori economici.
Non c’è molto tempo ma ancora un po’ di tempo c’è. C’è un passo nella “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” (1936) del grande John Maynard Keynes che mi piace sempre ricordare perché ci aiuta a vivere e ad essere positivi, e che gli europei farebbero bene a tenere a mente anche nel frangente odierno.
“Una larga parte delle nostre attività positive dipende da un ottimismo spontaneo piuttosto che da un’aspettativa in termini matematici, o morale, o edonistica o economica. La maggior parte delle nostre decisioni di fare qualcosa di positivo, le cui conseguenze si potranno valutare a distanza di parecchi mesi o anni, si possono considerare solo come risultato di slanci vitali, di uno stimolo spontaneo all’azione piuttosto che del calcolo e della media ponderata di vantaggi quantitativi moltiplicati per probabilità quantitative”.
Lasciate che si liberino gli spiriti vitali!
I padri fondatori del sogno europeo la pensavano così. È necessario ritornare a quel sogno calandolo nella realtà di oggi e liberando le forze e le energie determinanti per affrontare la sfida che abbiamo dinanzi.