Si è svolto a Parigi il 3 e 4 giugno il sesto Forum economico Italia-Francia che ha visto impegnati Confindustria e Medef, la Confindustria Francese.
Si è trattato di due mezze giornate intense che hanno visto l’incontro e il confronto di molti operatori industriali dei due Paesi, prima nella magnifica sede dell’Ambasciata italiana a Parigi e poi presso le sede del Medef.
Ho partecipato all’incontro nella qualità di consigliere del Presidente di Confindustria sui temi della competitività, dell’autonomia strategica europea e del piano Mattei ed ho presieduto uno dei due tavoli tematici, quello dell’energia (l’altro era quello sull’industria della difesa).
All’incontro ha partecipato, con un apprezzato intervento, anche Enrico Letta, autore del rapporto sul Mercato Unico Europeo a lui commissionato dall’Unione Europea.
Il clima dell’incontro è stato molto positivo, a conferma dell’eccellente stato dei rapporti tra i due Paesi a valle degli accordi del Quirinale, e ciò che mi ha colpito è che moltissimi interlocutori francesi parlavano un eccellente italiano e che molti soggetti italiani parlavano un eccellente francese. Ho assistito divertito e ammirato a numerosi scambi in cui l’interlocutore francese si rivolgeva al suo collega italiano in italiano e questi rispondeva sfoderando un buon francese. Anche questo è un piccolo miracolo dell’Europa. Sull’inglese siamo ancora indietro…
Il clima era buono e solidale, perché industriali italiani e francesi si sentono sulla stessa barca e guardano al futuro con l’ottimismo che è tipico degli imprenditori ma anche con grande preoccupazione per i grandi cambiamenti economici e geopolitici mondiali che mettono l’Europa in una situazione di affanno che è inutile nascondere.
Italia e Francia sono, insieme alla Germania, i più grandi paesi industriali d’Europa ed avvertono lo spiazzamento progressivo della manifattura europea rispetto alla crescita più veloce e aggressiva di Stati Uniti d’America, Cina e India.
Come abbiamo sostenuto più volte su queste pagine, il divario di crescita e dimensione dell’economia degli ultimi anni tra Usa ed Europa è impressionante. Ancora nel 2010 i PIL delle due aree del mondo, Usa e UE, erano più o meno equivalenti. Oggil il PIL europeo è circa il 65% di quello statunitense. È come se in 15 anni fossero scomparsi dall’Unione Europea i PIL di Francia, Italia e Germania messe insieme.
Questo spiazzamento e la crisi attuale vengono da una serie di errori gravi compiuti dall’Europa, errori di cui le classi dirigenti parlano di malavoglia, e che hanno la loro radice culturale in un atteggiamento della politica e della tecnocrazia di Bruxelles presuntuoso, iper-regolatorio, fondamentalmente antindustriale e tutto concentrato sulla tutela dei consumatori.
Ho scritto più volte, e lo ripeto, che nessun Paese del mondo è mai diventato grande per la funzione di consumo. Tutte le grandi economie del globo lo sono diventate per la loro capacità di produzione e di creazione di valore.
Come detto il vizio culturale europeo è stato un vizio di presunzione: ‘Siamo i primi del mondo e insegneremo a tutti quello che si deve fare…’ (qui pernacchie a tutta forza dal resto del mondo); ‘L’industria, specie quella di base, non serve anzi dà fastidio, tanto possiamo comprare tutto ovunque senza alcuna tutela per la manifattura europea anche quando questa è esposta alla concorrenza sleale’; ‘Bisogna spingere senza se e senza ma su un green deal con obiettivi irraggiungibili, costosissimo, e di cui nessuno sa chi pagherà il conto’.
Distorsioni cognitive gravi, incomprensione di cosa sta succedendo intorno a noi, difficoltà ad uscire da un “mainstream” costituito dall’intreccio mortale di tre estremismi: uno ambientale, uno globalista e mercatista, l’altro di finanziarizzazione di tutto, confidando in un’Europa post-industriale, un’Europa che, secondo molti, può fare a meno della fatica dell’industria e dei suoi imperativi.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti; e finalmente si scopre che c’è un serio rischio di morte dell’Europa (lo dice Macron ma lo dice anche Scholz) e che c’è un grave problema di competitività dell’industria europea gravata da pesi e oneri che in nessuna altra parte del mondo sono stati messi sulla schiena dell’industria. E allora Von der Leyen chiama Draghi, san Mario, a spiegarci come l’Europa e la sua industria può tornare competitiva.
Anche qui bisogna essere lucidi e razionali. I miracoli sono di un altro mondo e il compito affidato a Draghi sembra una mission impossible. Come si può pretendere di far ritornare competitiva l’industria europea quando ci troviamo:
- In un declino demografico pauroso;
- Con un green deal che si pone obiettivi costosissimi, anche in termini di sostenibilità economica e sociale, e che nessuno sa come verranno raggiunti e con i soldi di chi;
- Con il welfare più caro del mondo.
Oggi non c’è risposta a questo interrogativo se non la presa di coscienza, finalmente, che stiamo vivendo un declino pericoloso che porterà molte sofferenze. Ma la presa di coscienza non significa ancora decisioni radicali e azioni conseguenti per invertire, se ancora si può, la rotta.
Vedremo il rapporto Draghi e confidiamo in un messaggio di cambiamento “radicale” di cui lui stesso ha recentemente parlato.
Nel frattempo industriali francesi e industriali italiani, molto pragmaticamente, hanno affrontato nella due giorni di Parigi temi di possibile cooperazione che partono dall’affinità di vedute e dal rafforzamento della cooperazione che c’è già.
Il tema dell’energia, e in particolare dell’energia per l’industria, è stato affrontato con spirito di partnership. Uno dei terreni di sicura collaborazione è rappresentato dal nucleare sicuro e di nuova generazione e in particolare degli SMR (small and medium reactors). EDF detiene su questa tecnologia un primato mondiale e molte imprese italiane a partire da Ansaldo Energia di Genova lavorano sul progetto e nella filiera. Un’ipotesi di accordo di sostegno dell’industria italiana a questa tecnologia e di contratti di fornitura a lungo termine di energia nucleare dalla Francia per le industrie energivore italiane è stato evocato e ci si lavorerà nelle prossime settimane.
Bisogna ricordare a tutti e sempre che l’energia elettrica nucleare è completamente decarbonizzata e quindi può aiutare tantissimo le industrie energivore nei loro percorsi di transizione.
Si tratta di un’ipotesi importante che tiene conto dei grandi cambiamenti in atto e della necessità di liberarsi dal rischio di nuove dipendenze.
Come ci ha ben spiegato il professor Orsina, intervenuto al forum con un discorso coraggioso per un vero liberale come lui, l’era della globalizzazione spinta, del mercato che risolve tutti i problemi del mondo e che porterà la democrazia e la libertà ovunque come valori universali, di un turbo capitalismo che ha ridotto la politica ad un ruolo secondario e ancillare di produttrice di norme che tutelino il mercato e i consumatori, è finito.
Viviamo un nuovo periodo storico in cui le contingenze esterne, le turbolenze, la grave instabilità del quadro geopolitico obbligano la politica con la P maiuscola a tornare in campo. Purtroppo occorre tornare a pensare in termini di conflitti e di potere e le attività produttive e l’industria andranno sempre più difese come elementi essenziali della sicurezza economica e strategica.
Nell’accompagnamento a questo cambiamento culturale e di narrazione l’industria, il mondo produttivo possono fare molto, aiutando i decision makers a uscire da una retorica astratta, costringendoli a misurarsi con i problemi di tutti i giorni che poi sono quelli che interessano realmente i cittadini europei.
Per la cronaca l’Europa ha speso dal 2014 al 2020 più di 400 miliardi per le politiche agricole che riguardano 8,7 milioni di cittadini europei, più di 50 miliardi di euro l’anno. Gli addetti europei all’industria sono 31,6 milioni in Europa, ma una politica industriale europea non esiste…
Compiti a casa per Confindustria, Medef e BDI (la Confindustria tedesca). Sono i grandi stati industriali europei e le loro classi imprenditoriali che hanno il compito di cambiare la narrazione. Il tempo però è maledettamente poco.