Cop29, gli esperti: “Ci aspettiamo segnale forte da Rio”. Resta nodo donatori

Il direttore e cofondatore del think thank Ecco, Luca Bergamaschi a Gea: "G20 la sede principale per le discussioni sulla finanza e sulla riforma del sistema finanziario internazionale"

Si apre a Baku, in Azerbaigian, la seconda settimana di COP29, quella decisiva. I negoziati si fanno più politici, perché dopo sei giorni di lavoro sotto la guida dei corpi tecnici di supporto dell’Unfccc da oggi, sui temi più spinosi, le delegazioni negoziano come Cop, sotto la guida della presidenza.
L’attenzione si sposta al Vertice G20 di Rio. I venti grandi insieme, pesano per circa l’85% dell’economia globale. “Questo fa del G20 la sede principale per le discussioni sulla finanza e sulla riforma del sistema finanziario internazionale”, osserva il think tank Ecco. “Vedremo il testo del comunicato che dovrebbe essere pubblicato la sera di martedì, ci aspettiamo un segnale più forte e importante per concludere i negoziati qui e mostrare quali sono quegli strumenti che i paesi G20 metteranno in campo“, spiega a Gea il direttore e cofondatore, Luca Bergamaschi.

Il summit brasiliano sarà insomma determinante a per raggiungere un risultato di successo a Baku. “Occhi puntati su Rio già martedì mattina”, osserva tra i padiglioni della conferenza delle parti Jacopo Bencini, presidente di Italian Climate Network.Abbiamo visto che è stata convocata una plenaria di stocktake qui per domani sera e sembra che la presidenza abbia intenzione di preparare una bozza sul nuovo obiettivo finanziario globale entro quella plenaria, quindi chiaramente con un output ricevuto da Rio”, riferisce.
I nodi di questa Cop che punta tutto sulla finanza climatica sono diversi: “C’è la cifra, c’è la modalità in cui la cifra si eroga, ci sono anche i time-frame, quindi le prospettive temporali di erogazione”, chiosa Bencini. “Si parla di un’erogazione annuale su 5 anni, annuale su 10 anni, oppure semplicemente degli obiettivi annuali entro una data non prestabilita. Su questo ancora niente è stato deciso”, ricorda. Bisognerà capire se c’è una percentuale obbligatoria di finanza pubblica o meno, ma anche se muovere una cifra annualmente rispetto a un obiettivo e quindi per quanto bisogna dividere la cifra complessiva. Questo è un po’ il centro della discussione e, scandisce, “tutti e tre gli aspetti stanno insieme, perché non si può costruire il quantum senza sapere su quanto tempo è spalmato”.

Si possono considerare due tipologie di cifre che gli Stati possono essere disposti a impegnare, chiarisce Bergamaschi. La prima è quella di “finanza mobilitata“, cioè l’insieme della finanza pubblica e privata che determina i flussi di investimento. “Questa cifra può essere all’incirca di 1.300 miliardi l’anno a partire dal 2026 in poi e c’è un riconoscimento che questo livello totale debba essere raggiunto“. L’altro numero invece è più specifico per la finanza pubblica e anche quello più difficile, perché “impegna le spese pubbliche dei Paesi principalmente più ricchi e qui siamo ancora molto indietro a identificare una cifra in cui i paesi sviluppati come anche l’Italia possono sentirsi sicuri di riuscire a raggiungere”. Guardare alla decade fino al 2035 secondo il direttore di Ecco può “dare più ossigeno”. Il punto è capire su quanti contributori poter contare: “Ovviamente più la richiesta è alta, più bisogna allargare la platea“. Bergamaschi pensa alla Cina e ai Paesi del Golfo e non si dice pessimista: “Il discorso del viceministro cinese la scorsa settimana qui a Baku è stato un passo in avanti, perché ha riconosciuto il ruolo della Cina nei Paesi in via di sviluppo“. L’ampliamento della platea, però, mette in chiaro, “non toglie il fatto che chi ha la responsabilità storica più alta, quindi Stati Uniti ed Europa, deve comunque fare la parte da leone”.

Per l’Italian Climate Network, l’obiettivo più a portata di mano è l’indicazione dei 6.000 miliardi di dollari di necessità per lo sviluppo degli NDC dei paesi Global South, evidenziato dalla Standing Committee on Finance all’inizio della Cop, che potrebbe tradursi, come dicono i cinesi in particolare, in 1.000 miliardi o 1.300 miliardi all’anno da mobilitare. “Questo però è chiaramente un obiettivo di frontiera – avverte -, che la Cina continua a mettere sul tavolo puntando a qualcosa di meno, tenendo però alta l’ambizione iniziale”.