La sostenibilità dei vitigni resistenti. Il produttore: “Ci sarà il boom”

Si tratta di viti resistenti alle malattie, coltivabili riducendo al massimo fino a eliminare i trattamenti fitosanitari e a latitudini e altitudini ostiche per le altre tipologie

Viti resistenti alle malattie, coltivabili riducendo al massimo fino a eliminare i trattamenti fitosanitari e a latitudini e altitudini ostiche per gli altri vitigni. Sono i vigneti resistenti Piwi che, oltre a tutti gli altri benefici, sono in grado anche di ridurre l’impatto ambientale. E’ questo il concetto alla base della rete di otto aziende della Resistenti Nicola Biasi, fondata due anni fa con lo scopo di “unire l’alta qualità dei vini con una concreta sostenibilità, perché ci siamo resi conto che spesso le due cose non vanno di pari passo o la sostenibilità è solo millantata ma non così reale”, spiega a GEA il fondatore Nicola Biasi.

L’idea, però, è nata molto tempo prima. Per l’esattezza, nel 2012, quando Biasi ha deciso di piantare questo tipo di viti in Trentino: “Devo essere onesto: inizialmente avevo pensato poco alla sostenibilità. Ma avevo fatto degli studi e, secondo me, un certo tipo di vitigno resistente era quello che, a mille metri di altitudine, avrebbe prodotto il miglior vino. C’era poi il vantaggio che richiedesse pochi trattamenti, ed essendo io lontano questo mi semplificava la vita. Undici anni fa il tema della sostenibilità non era presente quanto oggi”. Poi, però, le cose sono cambiate. E oggi questa caratteristica dei vitigni resistenti è ancor più apprezzata. E uno studio condotto in una delle aziende della rete, Albafiorita della provincia di Udine, ha dimostrato una riduzione del 38% circa delle emissioni di CO2 rispetto a vitigni con varietà classiche.

Queste nuove varietà resistenti alle principali malattie della vite (peronospora, oidio e botrite), permettono una riduzione dei trattamenti, un minor utilizzo di antiparassitari, un minor consumo d’acqua con un conseguente impatto ambientale non paragonabile alla viticoltura attuale. E perché, allora, sono ancora così poco diffuse? “La difficoltà è di tipo commerciale – dice Biasi – perché la gente non conosce questi vini, sono meno diffusi. In passato, poi, capitava che non fossero buoni, quindi si è creato un pregiudizio. Noi abbiamo la consapevolezza che può funzionare se facciamo vini buoni, che piacciono al mercato. Per questo siamo molto concentrati sulla qualità”. Infatti, le cose stanno cambiando. Soprattutto da quando alcuni di questi vini hanno iniziato a ricevere dei riconoscimenti. Come i Tre Bicchieri del Gambero Rosso assegnati al Vin de la Neu 2020, proprio di Nicola Biasi.

Secondo Biasi, a volte il limite sta nella tradizione, ma questo modello dovrà necessariamente cambiare. “Il cambiamento climatico c’è ed è evidente. Se in un certo posto d’Italia 40 anni fa producevo un merlot buonissimo, oggi non lo faccio più. Restare troppo legati alla tradizione pone il rischio di non essere allineati con i tempi”. “L’importante è che ci creda tutta la filiera – spiega –, che i ristoranti, anche stellati, li raccontino e li propongano ai clienti. Sono sicuro ci sarà il boom”.

A oggi fanno parte della rete otto aziende fra Friuli, Veneto e Trentino. Ma entro fine 2023 ne entreranno altre due, una piemontese e una delle Marche. “Intanto – conclude Biasi – sto comprando un vigneto in Mosella (Germania, ndr). Quindi la rete diventa internazionale”.