E’ il momento di fare partire il ‘green sociale’

C'è una debolezza grande, che rischia di aggravarsi: la dimensione sociale del processo verso un'economia sostenibile

Vorrei vedere un quadro di proposte ed interventi generali e, accanto ad ogni proposta legislativa per l’industria green,  una proposta sul “lavoro green” cioè sulle ricadute sociali e i possibili rimedi. Anche perché questo sì aiuterebbe i cittadini a condividere le scelte.

Figuriamoci se noi che scriviamo per Gea non siamo tra i più grandi sostenitori della transizione verde. Siamo convinti, da sempre, che quella sia la strada, per dovere verso le prossime generazioni ma anche perché è lì che si svilupperà il mondo della produzione nei prossimi anni. L’Unione europea, in questo processo, è partita per tempo, con grandi ambizioni, costantemente confermate, alle volte anche cresciute e alle volte ridimensionate. Ma diventare “i primi” in questo percorso è la strada giusta, diventare un riferimento mondiale non potrà che offrire grande vantaggi competitivi, di resilienza, e di crescita.

Però c’è una debolezza grande, che anzi rischia di aggravarsi: la dimensione sociale del processo verso un’economia sostenibile. I problemi sono tanti e di diversa natura, ma la sintesi è che si rischia una forte perdita di posti di lavoro e una crescita delle disuguaglianze sociali. Su questo la voce dell’Unione non è forte come dovrebbe. Si riconosce che la questione esiste, e sarebbe impossibile non farlo, ma nei tanti progetti in campo non ce ne sono che “tranquillizzino” i cittadini sul futuro lavorativo loro e dei loro figli.

Dalle istituzioni e da qualche centro studi escono spesso dati su quanti posti di lavoro creeranno le nuove politiche produttive green. Si promettono milioni di “nuovi posti”, che però non sono aggiuntivi ai vecchi, e neanche sostitutivi. Sono solo “nuovi”, per nuove professionalità, nuove abilità. Il che apre un fronte per i lavoratori non più giovani, ma non abbastanza vecchi per ritirarsi dal mercato del lavoro, ma già abbastanza vecchi per essere difficilmente formati ai nuovi mestieri.

Nella nostra professione, il giornalismo, già molte testate usano l’intelligenza artificiale per compilare i testi “di routine”, quelli puramente compilativi che non necessitano di un apporto creativo. Bello non dover più compilare, come il sottoscritto fece oramai 40 anni fa, le tabelle con il prezzo all’ingrosso della seta a Yokohama, ma quel posto di lavoro ora non c’è più. Si dirà che così quel giornalista potrà essere usato per fare approfondimenti o cose più rilevanti. In parte è vero, ma se si guarda alle scelte (che qui non giudichiamo) degli editori, il risultato è che i posti di lavoro sono sempre meno. Una riflessione ad ampio spettro  ma che, ovviamente, tiene conto di alcune (rare) eccezioni di cui sono testimone personale.

Lo stesso discorso vale per tanti mestieri: bancari, impiegati dagli sportelli, casellanti dell’autostrada, operai, operatori di call centre… Certo, molti potranno svolgere mestieri magari più interessanti e forse anche meno faticosi. Ma quanti?

Le soluzioni sono diverse a partire dalla prima, e per molti più gradita: lavorare meno per lavorare tutti. Era uno degli slogan delle proteste del 1968, ma ora torna in auge, ed è forse una tendenza che alcuni Paesi ed alcune aziende stanno sperimentando.

Qui però non voglio offrire soluzioni, voglio chiederle. E quel che chiedo all’Unione europea è di fare una campagna forte su questo punto, vorrei vedere un quadro di proposte ed interventi generali e accanto ad ogni proposta legislativa per l’industria green (o anche non green) una proposta sul “lavoro green” cioè sulle ricadute sociali e i possibili rimedi. Anche perché questo sì aiuterebbe i cittadini a condividere le scelte.