Ri-fotografare a distanza di anni i territori colpiti da terremoti e sovrapporre le immagini attraverso software specifici per comprendere in maniera chiara e immediata i cambiamenti sul paesaggio, analizzando per via indiretta le conseguenze degli eventi sismici dal punto di vista sociale e ambientale. È quanto è stato fatto con lo studio ‘Landscape, Memory, and Adverse Shocks: The 1968 Earthquake in Belìce Valley (Sicily, Italy): A Case Study’ realizzato dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) in collaborazione con l’Università degli Studi di Catania e l’Accademia di Belle Arti di Palermo. Lo studio, recentemente pubblicato sulla rivista scientifica ‘Land’ di MDPI, evidenzia come la fotografia possa essere uno strumento utile a scopi sia scientifici che divulgativo-formativi, con l’obiettivo ultimo di favorire nella popolazione la consapevolezza del rischio sismico e di altri rischi naturali.
“Partendo dal corposo patrimonio fotografico d’archivio del quotidiano ‘L’Ora’ di Palermo, custodito presso la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana, abbiamo investigato gli effetti sul territorio del terremoto che la notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1968 colpì la Valle del Belice, nella Sicilia occidentale”, spiega Mario Mattia, ricercatore dell’Ingv e co-autore dello studio. Attraverso un lavoro di campagna svolto nel 2020, “abbiamo ri-fotografato quegli stessi luoghi – dice – per rilevare la configurazione territoriale più recente e valutare l’impatto del sisma nel tempo”.
Dopo i disastrosi eventi del 1968, la Valle del Belìce ha dovuto attendere alcuni decenni prima di iniziare a sperimentare i primi segnali di rinascita economica, sociale e culturale. Tuttavia, il lento ma costante spopolamento dell’area ha contribuito ad accentuare la percezione di ‘abbandono’ di un territorio in cui gli interventi di ricostruzione, a distanza di oltre 50 anni dal terremoto, non sono riusciti a colmare il divario con il resto del Paese.
“Il lavoro di ri-fotografia della Valle ci ha consentito delle riflessioni che corroborano quanto si può ancora dedurre dall’osservazione diretta del territorio dal punto di vista, ad esempio, dell’abbandono e della museificazione delle rovine”, prosegue il ricercatore. “Un piano ri-fotografico su un periodo di tempo più ampio rispetto al nostro – precisa Mattia – consentirebbe tuttavia una lettura ancora più accurata dei processi territoriali e culturali di lungo respiro. I 50 anni trascorsi dal 1968, infatti, per quanto interminabili siano stati per le comunità locali, sono un periodo di tempo ancora troppo breve per permettere di leggere efficacemente i cambiamenti in un contesto territoriale che sembra essere rimasto ‘congelato’ nel tempo”.
La ri-fotografia è una tecnica spesso utilizzata in sociologia e geomorfologia poiché è in grado di restituire un’efficace narrazione didascalica dell’evoluzione di fenomeni sociali e naturali. Utilizzare lo strumento fotografico (e ri-fotografico) per parlare di rischi naturali può rappresentare un’opportunità per migliorare la percezione del rischio e la resilienza nella popolazione.
“Nella Valle del Belìce, fino al terremoto del 1968, un rischio sismico stimato basso non aveva indotto alcuna azione di mitigazione del rischio né di gestione dei disastri. Da questo punto di vista, l’impatto di immagini in cui gli effetti del terremoto si sovrappongono a quelle di preesistenti insediamenti urbani può stimolare la riflessione sulla percezione del rischio sismico nelle scuole e negli ambienti pubblici. La ri-fotografia, inoltre, può essere utilizzata a integrazione delle valutazioni per l’identificazione delle aree maggiormente vulnerabili della Valle. Primi fondamentali passi, questi, verso la comprensione del rischio sismico nel Belice e verso l’elaborazione e l’attuazione di correlate strategie di mitigazione”, precisa Mattia.