Community, influencer, piattaforme, engagement, DM, #gifted, #ad. Se c’è una regola a cui nessuno può sfuggire nel mondo della comunicazione è che i social network non sono (solo) una cosa da Millennial. E che il successo – di un prodotto, di una campagna, di un’iniziativa – passa quasi sempre da lì. Così come le opinioni, per essere considerate degne di nota, non possono dimenticare di fare una capatina nelle stories o di essere accompagnate dalla musica per un reel. Nel caso della cosmesi green, la dimensione social(e) del tema affonda le sue radici almeno 20 anni fa. Se prima erano le riviste a raccontare questo mondo, dall’inizio del millennio è il web la madre patria della comunicazione dedicata ai cosmetici, in modo particolare a quelli naturali. Grazie a Fabrizio Zago, chimico e uno dei massimi esperti in materia, chi in quegli anni cercava informazioni sul rapporto tra prodotti cosmetici, ambiente e salute, si sarà imbattuto nel forum di Promiseland, che già dal nome evocava una certa idea di futuro. Qui, racconta a GEA Barbara Righini, una delle prime a condividere sul web informazioni sull’ecobio “ho scoperto news sconvolgenti sulla cosmesi e ho capito che andavano raccontate, dovevano uscire da quella nicchia”. Da qui l’idea di aprire un blog – poi trasformato in portale – e, soprattutto, il forum ‘Sai cosa ti spalmi?’ che dal 2005 è diventato un punto di riferimento fondamentale per gli appassionati del settore.
Blog e forum. Ecco cosa offriva il web 20 anni fa. “C’era un grande spazio vuoto che andava occupato”, spiega Cristopher Cepernich, docente di Sociologia della comunicazione all’Università di Torino, e in quello spazio vuoto “ha preso vita un internet molto diverso da quello di oggi, basato sull’idea tecnicamente possibile di orizzontalità”. Nei forum dedicati alla cosmesi green – Sai cosa ti spalmi? e Promiseland, ma anche L’Angolo di Lola, dedicato in modo particolare all’autoproduzione – “c’era il desiderio di parlare, di confrontarsi – dice Righini – di trovare informazioni serie e affidabili. Il concetto di ‘community’ era reale: molti che parlavano a molti. Una potenza che arrivava dal basso”. Ma non solo.
“Lo spazio della condivisione – racconta Cepernich a GEA – era pensato orizzontalmente. C’erano regole di gestione delle interazioni di gruppo, ma era la stessa struttura tecnica del forum” a garantire una sorta di partecipazione democratica. Certo, anche allora c’erano i leader (che oggi chiameremmo influencer), ma, dice il docente, “eravamo tutti parte del gruppo”. Così, ad esempio, se qualcuno chiedeva informazioni su un particolare attivo cosmetico, la community si attivava e forniva informazioni citando fonti e studi autorevoli.
E oggi? “Con la nascita delle cosiddette piattaforme, cioè i social network, si sono create delle sovrastrutture”, spiega Cepernich, “guidate da una logica di profitto e non di condivisione”. Chi sta su Facebook, Instagram, TikTok, lo fa “con le regole che decide la piattaforma e che puntano all’acquisizione di dati personali”.
Lo scopo, perciò, è ben diverso da quello dei forum. Non solo entra più spintamente in gioco il denaro, ma la comunicazione passa da molti-a-molti a uno-a-molti. E, cosa assolutamente fondamentale per comprendere questo passaggio, nasce il concetto di “performance: chiunque sui social può misurare in tempo reale le interazioni, i messaggi ricevuti, l’engagement”. Una logica esattamente opposta a quella dei forum, che non chiedevano di misurare proprio nulla, ma invitavano a partecipare alle discussioni come e quando si desiderava.
Per Barbara Righini, nel caso della comunicazione della cosmesi c’è dell’altro. “Oggi – dice – anche quando viene fatto in buona fede, il racconto è sempre pubblicitario. Gli influencer e i divulgatori si mettono su un piedistallo e parlano ai followers che, però, non sono una community intesa come persone che hanno uno scambio per acquisire autonomia di pensiero, ma sono ‘seguaci’ che non hanno spazi adeguati di condivisione, per cui la comunicazione viene più ‘subita’ che vissuta in modo partecipativo”. Insomma “ora si punta sulla viralità e non sulla partecipazione dal basso”. Senza contare, poi, che “chi ha i mezzi economici può conquistare grandi numeri e chi ha grandi numeri acquista un enorme potere”.
Anche oggi, però, è possibile tentare di ritrovare quella dimensione ‘orizzontale’. Ad esempio, spiega Cepernich, all’interno dei gruppi Facebook, su Telegram o Whatsapp, “dove le relazioni sono più circoscritte, c’è maggiore omogeneità perché le persone hanno interessi simili, si rispecchiano nell’identità del gruppo. Viene meno l’autorappresentazione, cioè il mettersi in scena” tipica dei social.
Ma allora tutto ciò che troviamo su Instagram e su Facebook è da buttare? Certamente no. Anche se il moltiplicarsi delle fonti ha reso estremamente complesso individuare quelle sicure dalle fake news, è possibile tornare a discutere in modo paritario attraverso “nicchie identitarie” che, secondo il docente di Sociologia della comunicazione, potrebbero essere il futuro. “I social – spiega – stanno perdendo la loro identità generalistica e si va sempre più verso la frammentazione dei gruppi e della discussione. Quindi non 100mila persone che discutono in un grande gruppo, ma 50mila sottogruppi diversi che parlando di argomenti specifici”.