Il buco dell’ozono si sta chiudendo grazie alla riduzione dei gas Cfc

I clorofluorocarburi sono stati i responsabili dell'apertura sopra l'Antartide, attraverso la quale le radiazioni ultraviolette del sole colpiscono la Terra in modo diretto

Procede “a ritmo sostenuto” la chiusura del buco dell’ozono grazie alla drastica riduzione dei gas Cfc, cioè i clorofluorocarburi. Lo rivela un nuovo studio condotto dal Mit (Massachusetts Institute of Technology) e pubblicato su Nature, secondo il quale “possiamo davvero risolvere questo problema ambientale”.

L’autrice della ricerca è Susan Solomon. All’interno della stratosfera terrestre, l’ozono è un gas presente in natura che agisce come una sorta di crema solare, proteggendo il pianeta dalle dannose radiazioni ultraviolette del sole. Nel 1985, gli scienziati scoprirono un “buco” nello strato di ozono sopra l’Antartide che si apriva durante la primavera australe, tra settembre e dicembre. Questo impoverimento stagionale permetteva improvvisamente ai raggi UV di filtrare fino alla superficie, provocando cancro della pelle e altri effetti negativi sulla salute.

Nel 1986, Solomon, che allora lavorava presso la National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), guidò delle spedizioni in Antartide, dove lei e i suoi colleghi raccolsero prove che confermarono rapidamente la causa del buco dell’ozono: i clorofluorocarburi, o CFC, sostanze chimiche che allora venivano utilizzate nella refrigerazione, nell’aria condizionata, nell’isolamento e nei propellenti aerosol. Quando i CFC si spostano verso la stratosfera, possono distruggere l’ozono in determinate condizioni stagionali.

L’anno successivo, queste rivelazioni portarono alla stesura del Protocollo di Montreal, un trattato internazionale che mirava a eliminare gradualmente la produzione di CFC e di altre sostanze che riducono lo strato di ozono, nella speranza di riparare il buco dell’ozono. Nel 2016, Solomon ha condotto uno studio che ha riportato i principali segni di recupero: il buco dell’ozono sembrava ridursi ogni anno, soprattutto a settembre, il periodo in cui di solito si apre. Tuttavia, queste osservazioni erano di tipo qualitativo e mostravano grandi incertezze su quanto di questo recupero fosse dovuto a sforzi per ridurre le sostanze che impoveriscono l’ozono o se il restringimento del buco fosse il risultato di altre “forze”, come la variabilità meteorologica di anno in anno dovuta a El Niño, La Niña e al vortice polare.

Nel nuovo studio, il team del Mit ha adottato un approccio differente e, dopo 15 anni di osservazioni, ha scoperto che il recupero è stato dovuto proprio alla drastica riduzione dei clorofluorocarburi. Per farlo hanno utilizzato un metodo chiamato noto come “fingerprinting”, sperimentato per la prima volta da Klaus Hasselmann, Premio Nobel per la Fisica nel 2021. Il sistema isola l’influenza di specifici fattori climatici, a parte il ‘rumore’ meteorologico e gli autori dello studio lo hanno utilizzato per identificare un altro segnale antropogenico: l’effetto della riduzione da parte dell’uomo delle sostanze che impoveriscono l’ozono sul recupero del buco dell’ozono.