Il greenwashing è in crescita, servono regole più rigide

"Sta crescendo e continuerà a crescere fino a quando non ci saranno standard che chiariscano chi sta facendo cosa in modo preciso", ha dichiarato Emmanuel Faber, l'ex amministratore delegato di Danone

Pochi giorni prima della conferenza mondiale sul clima tenutasi a Glasgow lo scorso ottobre, la più grande compagnia petrolifera del mondo, Saudi Aramco, ha annunciato un clamoroso obiettivo di emissioni operative di carbonio “net zero” entro il 2050. Come Saudi Aramco, più di un terzo delle 2.000 maggiori società quotate in borsa al mondo ha adottato un obiettivo di carbon neutrality o di azzeramento dei gas serra, di solito entro il 2050.

Si tratta di promesse lontane, fatte in base a definizioni diverse, senza alcuna verifica, che lasciano il campo al peggior tipo di greenwashing – la promozione dell’immagine di un’azienda come più virtuosa dal punto di vista ambientale di quanto non sia in realtà. “Il greenwashing sta crescendo e continuerà a crescere fino a quando non ci saranno standard che chiariscano chi sta facendo cosa in modo preciso“, ha dichiarato Emmanuel Faber, l’ex amministratore delegato di Danone che a novembre è stato nominato presidente del neonato International Extra-accounting Standards Board (Issb), un organismo totalmente sconosciuto al grande pubblico ma che è stato incaricato di definire uno standard climatico universale per le aziende.

Le aziende calcolano la loro impronta di carbonio fin dagli anni 2000. Per il conteggio delle emissioni prodotte da fabbriche, uffici, fornitori, dipendenti o clienti, il metodo di riferimento globale è quello americano, il Ghg Protocol. Ma ha molte lacune e non è obbligatorio. Confrontare le emissioni di diverse aziende è rischioso quanto confrontare i loro profitti. Ad esempio, molte multinazionali pubblicano solo una piccola parte delle loro emissioni effettive, come ha recentemente dimostrato la Ong Carbon Market Watch.

Per quanto riguarda Saudi Aramco, ha usato un trucco comune: la sua promessa di ‘net zero’ si riduce alle sue emissioni ‘operative’, cioè principalmente a ciò che rilasciano i suoi siti industriali, tralasciando la parte più grande, le emissioni ‘indirette’ di CO2 legate al petrolio che vende.

Il greenwashing è “palese” da parte di alcune aziende, afferma Thomas Koch Blank, esperto del Rocky Mountain Institute, ma anche per le aziende con buone intenzioni, l’assenza di regole rigorose come quelle della contabilità finanziaria lascia troppo spazio all’arbitrarietà.

La più ambiziosa è l’Unione Europea, il cui organismo Efrag sta preparando standard ambientali e sociali per 50.000 aziende a partire dal 2024. Ma anche l’organo di controllo dei mercati finanziari statunitensi, la Sec, ha sorpreso tutti con una proposta normativa di ampia portata per obbligare le società quotate a pubblicare le proprie emissioni.

Con un futuro standard obbligatorio, tutte le aziende dovranno dire la verità sulla loro impronta di carbonio e sul loro piano di transizione climatica, pena una punizione. Le bugie ambientali saranno, in teoria, più facili da scoprire. È nata un’organizzazione che etichetta questi impegni, verificando che l’azienda abbia un piano rigoroso di riduzione delle emissioni: la Science-Based Targets Initiative (SBTi), gestita dalle OngWRI e CDP.