Il verde non va di moda, in Ue corsa al vestito fa male all’ambiente

La produzione di materie prime, la loro filatura in fibre, la tessitura e la tintura richiedono enormi quantità di acqua e sostanze chimiche

Camicetta, maglietta, completo, vestitino, blazer, cardigan. D’estate come d’inverno, i capi di abbigliamento non finiscono mai e si può essere sempre belli, sempre eleganti, sempre trendy, ma a ben guardare non poi così “cool”. Perché che si tratti di soddisfare piccole voglie o voler essere sempre alla moda, con i vestiti l’ambiente è démodé. Si pensa che ciò che indossiamo finisca dalla vetrina al guardaroba di casa propria, ma il percorso è molto più lungo e piuttosto insostenibile. La produzione di materie prime, la loro filatura in fibre, la tessitura e la tintura richiedono enormi quantità di acqua e sostanze chimiche, compresi i pesticidi per la coltivazione di materie prime come il cotone. Per non parlare del costo, in termini di sostenibilità, di manutenzione dei beni di uso quotidiano. Energia e dei prodotti chimici utilizzati per il lavaggio, asciugatura e stiratura e microplastica che si disperde nell’ambiente. L’Agenzia europea dell’ambiente stima che la fase di produzione rappresenti circa l’80% dell’impatto complessivo del cambiamento climatico dei tessili, mentre la fase di utilizzo (lavaggio, asciugatura e stiratura) il 14%. Insomma, anche se la polo piace e il tailleur è irresistibile, vestirsi fa più male di quanto si pensi.

A Bruxelles lo sanno bene. Tessile e ambiente non vanno a braccetto. Colpa anche di abitudini sbagliate. Tra sfizi che ci si vuole togliere, corse al capo da urlo, e desiderio di essere sempre al passo con la tendenza del momento, solo tra il 1996 e il 2012 la quantità di vestiti acquistati per persona nell’UE è aumentata del 40%, oltretutto per non essere sfoggiata mai o quasi. Si stima che
fino al 50% dei capi negli armadi di casa non venga utilizzato da almeno un anno e che ogni anno circa il 30% dei vestiti prodotti non venga mai venduto. Non si tratta di dettagli, considerando che una volta scartati, oltre la metà dei capi non viene riciclata ma finisce nei rifiuti domestici misti e viene successivamente inviata agli inceneritori o conferita in discarica.

Processi produttivi che stressano acqua e natura, pulizia che stressa risorse idriche e mondo circostante, sprechi e rifiuti come in pochi altri casi. Non è dunque un caso se l’abbigliamento “ha il quarto maggiore impatto sull’ambiente di tutte le categorie di consumo dell’Ue” dopo ristorazione, edilizia e trasporti e mobilità. Le istituzioni comunitarie, Commissione in testa, hanno provato a mettersi nei panni del pianeta, e il risultato è anche una ramanzina per noti luoghi di shopping. Il numero medio di collezioni lanciate dalle aziende di abbigliamento europee all’anno è passato da due nel 2000 a cinque nel 2011, “con Zara, ad esempio, che offre 24 nuove collezioni di abbigliamento ogni anno e H&M tra 12 e 16”. Strategie commerciali che alimentano un settore su cui l’Ue ha già iniziato a lavorare.

Il nuovo piano d’azione per l’economia circolare 2020 ha identificato il tessile come una catena del valore del prodotto chiave in cui era necessaria un’azione urgente per produzione e consumo di tessuti più sostenibile. Questa visione è stata presentata nella strategia dell’UE per i tessili sostenibili e circolari. Adottata dalla Commissione il 30 marzo 2022, intende fare in modo che entro il 2030 i tessuti sul mercato dell’UE siano durevoli e riciclabili, costituiti in gran parte da fibre riciclate, privi di sostanze pericolose per l’ambiente. Dunque l’ultima moda è quella green, e l’Ue lavora perché non venga mai superata.