Guerra, siccità ma anche speculazioni: pasta e pane volano alle stelle mentre i produttori nazionali fanno i conti con costi di produzione difficilmente sostenibili. “Il pane è diventato un bene di lusso“. La provocazione lanciata dai panificatori scesi in piazza a fine settembre fotografa bene il momento critico per tutta la filiera agroalimentare, e in particolare per tutte le attività legate al grano.
Sul cereale alla base di tanti prodotti di largo consumo si è scatenata la “tempesta” perfetta. Da un lato la guerra in Ucraina, che coinvolge due tra i principali produttori mondiali: nel 2020, secondo i dati Fao, la Russia era terza con 85,9 milioni di tonnellate e l’Ucraina ottava con 24,9 milioni. Dall’altro, l’estate calda e secca che ha penalizzato le coltivazioni: in Italia, secondo Ismea, il calo sarà del 16% rispetto al 2021 per il grano duro (usato per la pasta), mentre a livello continentale l’Ue stima un -9,2%. A tutto ciò, si aggiungono i pesanti rincari sulle bollette di gas e energia che stanno pesando sui costi di produzione sia delle grandi industrie di trasformazione sia dei piccoli artigiani dediti alla panificazione e ai prodotti da forno. Aumenti che si ripercuotono a catena fino agli scaffali dei supermercati e che hanno già spinto gli italiani a modificare in parte le loro abitudini di consumo: pane e soprattutto pasta non vengono più messi nel carrello con la “leggerezza” di qualche mese fa.
FATTORE GUERRA
La guerra innescata da Mosca lo scorso 24 febbraio ha avuto un impatto rilevante sul mercato globale del grano, lenito parzialmente a fine luglio grazie all’accordo siglato sotto l’egida di Onu e Turchia per lo sblocco dell’export dai porti ucraini. L’Italia ha pagato così l’impennata delle quotazioni del grano, pur non essendo particolarmente dipendente da Russia e Ucraina: dall’Ucraina proviene solo il 3-5% dei volumi di grano tenero acquistati oltre confine, mentre nell’ambito del grano duro Kiev riveste un ruolo marginale, con il nostro Paese che si rifornisce prevalentemente da Canada, Usa, Grecia, Francia. “Con particolare riferimento al frumento tenero, il ruolo detenuto a livello globale dai due paesi è molto rilevante poiché rappresentano congiuntamente circa il 15% dell’offerta e il 30% dell’export”, sottolinea Ismea nel suo ultimo rapporto su tendenze e dinamiche legate al grano duro.
L’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare evidenzia come “i prezzi del frumento tenero abbiano cominciato a rivalutarsi dallo scorso anno ma la dinamica inflattiva è risultata molto più evidente da marzo 2022“: l’impatto del conflitto è stato dunque decisivo. Nel dettaglio, il prezzo all’origine della granella di frumento duro è passato dai 215,85 euro/tonnellata di luglio 2021 ai 312,98 di febbraio 2022, per poi balzare al massimo di 409,55 a maggio 2022 e ripiegare 361,78 in luglio. Il prezzo all’ingrosso delle farine di frumento tenero è invece salito con più gradualità dai 450,07 euro/tonnellata di luglio 2021 ai 729,18 di maggio 2022, per poi mantenersi sostanzialmente stabile.
“Il conflitto in atto non ha alcuna connessione diretta con il frumento duro in ragione del fatto che produzione ed esportazione mondiale sono influenzate dal Canada“, evidenzia ancora Ismea. A dimostrazione di ciò, il fatto che in questo caso l’escalation dei prezzi è avvenuta nella seconda metà del 2021, mentre nel 2022 la quotazione è rimasta elevata ma stabile. Nel dettaglio, una tonnellata di granella di frumento duro costava 269,94 euro a giugno 2021 ed è balzata a 514,07 euro a novembre 2021 (praticamente il doppio), per poi restare stabile a 519,48 a giugno 2022. Insomma, nel boom dei prezzi della pasta la guerra ha inciso solo fino a un certo punto.
PREZZI E CONSUMI
La crisi del grano, unita al boom dei costi di produzione, ha fatto schizzare i prezzi finali di prodotti alla base dell’alimentazione nel nostro Paese, come pane e pasta. Per quanto riguarda quest’ultima, Ismea ha rilevato un prezzo medio unitario di 1,58 euro al kg nei primi 5 mesi di quest’anno, con un aumento del 20,7% rispetto al valore medio del 2021. Nel periodo gennaio-maggio, le vendite di pasta di semola sono diminuite di quasi il 3%: gli italiani insomma tagliano sulla spesa, più per una questione economica che per un mutamento delle abitudini alimentari. Andamento simile anche per la “pasta 100% italiana“: il prezzo è salito da 1,44 a 1,70 euro al kg e le vendite sono diminuite del 3,6% nel confronto con i primi 5 mesi del 2021. Secondo Coldiretti, gli italiani nel 2022 spenderanno per la pasta 800 milioni più dell’anno scorso.
Pesanti i rincari anche sul pane: Eurostat ha fotografato la situazione dello scorso agosto stimando un aumento del prezzo del 13,6% in Italia, comunque sotto la media Ue (18%) e lontano dai dati di alcuni paesi dell’Est quali Ungheria (+66%), Lituania (+33%), Estonia e Slovaccchia (entrambi +32%). In questo caso però l’aumento del prezzo non si traduce in un calo dei consumi: secondo Ismea nei primi sei mesi di quest’anno si è vista una crescita tendenziale delle vendite di pane sfuso artigianale del +2,3% in volume. “È pur vero che in un contesto di crisi economica generalizzata i consumi si spostano sempre più verso i prodotti più semplici e di base per l’alimentazione“, spiega Ismea.
SPECULAZIONI
Nelle ultime settimane Coldiretti ha più volte posto l’accento su possibili “manovre speculative e pratiche sleali sui prodotti alimentari” che aggravano la situazione già critica di dipendenza dalle importazioni di grano duro del nostro Paese. Parlando di grano e pasta, l’associazione di categoria sottolinea che “l’incidenza del costo del grano sul prezzo di penne e spaghetti è marginale, come dimostra anche l’estrema variabilità delle quotazioni al dettaglio lungo la Penisola mentre quelli del grano sono stabiliti dalle quotazioni internazionali“. I produttori italiani di grano si trovano così stretti tra due fuochi: da un lato il crollo dei raccolti legato alla siccità che in alcune zone ha toccato il -30%, dall’altro il grano che, secondo Coldiretti, viene pagato circa 47 centesimi al chilo, al di sotto dei costi di produzione che sono volati alle stelle (+68% secondo dati Crea elaborati da Coldiretti) per i rincari di materie prime indispensabili come ad esempio fertilizzanti e gasolio. “Occorre ridurre la dipendenza dall’estero e lavorare da subito per accordi di filiera tra imprese agricole ed industriali con precisi obiettivi qualitativi e quantitativi e prezzi equi che non scendano mai sotto i costi di produzione come prevede la nuova legge di contrasto alle pratiche sleali” ha evidenziato il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini.