La rinascita di un ‘cimitero’: in un cantiere nel sud-ovest della Norvegia, vecchie piattaforme petrolifere, imponenti emblemi dell’era fossile, si preparano a una nuova vita nell’economia circolare. Sulla banchina del comune di Stord, tre moduli giganteschi e obsoleti, per un totale di 40.000 tonnellate di materiale, attendono di essere smantellati e ridotti in pezzi. E di essere riciclati al 98%. “Se tornate qui tra un anno e mezzo, non vedrete più nulla“, dice Sturla Magnus, senior manager di Aker Solutions, un gruppo specializzato nella costruzione di impianti petroliferi e del gas ma anche nel loro smantellamento. Alle sue spalle, gli operai sono impegnati intorno ai tre colossi: la piattaforma del campo di Gyda, che sarà chiusa nel 2020, e altre due del campo di Valhall, ancora in funzione ma che hanno fatto il loro tempo. Una volta eseguite le ispezioni di sicurezza, vengono rimosse le apparecchiature elettriche e i materiali pericolosi come l’amianto, prima che il resto, enormi gusci vuoti, venga consegnato alle gigantesche cesoie delle macchine.
Tra i rifiuti più recuperati – e più diffusi – ci sono decine di migliaia di tonnellate di acciaio di alta qualità che possono essere riutilizzate in nuove piattaforme, strutture industriali o persino turbine eoliche offshore. “È un acciaio che deve resistere alle condizioni climatiche del Mare del Nord. È il migliore disponibile“, afferma Thomas Nygård, responsabile del progetto di disattivazione di Aker Solutions. Pur continuando a costruire più impianti petroliferi di quanti ne smantelli, l’azienda elogia le virtù di questo riciclo. Secondo diverse stime, un chilo di acciaio riciclato comporta una riduzione delle emissioni di gas serra compresa tra il 58 e il 70% rispetto a un chilo di acciaio nuovo.
10.000 IMPIANTI DA SMANTELLARE
Poiché il Mare del Nord è uno dei bacini di idrocarburi più vecchi al mondo, molte piattaforme petrolifere e di gas stanno raggiungendo la fine della loro vita. In un rapporto del 2021, l’associazione di categoria Oil and Gas UK (OGUK), ora Offshore Energies UK (OEUK), ha stimato in oltre 1 milione di tonnellate il volume totale delle piattaforme in queste acque da demolire nel corso del decennio. Un mercato enorme e in crescita. Qualche anno fa, OGUK ha stimato una cifra pari a 200.000 tonnellate. “Se si considera la situazione su scala globale, si tratta probabilmente di quasi 10.000 impianti che prima o poi torneranno a riva“, afferma Magnus. Per Aker Solutions, il piano si estende fino al 2028. Una delle piattaforme petrolifere più vecchie della Norvegia, Statfjord A, in funzione dal 1979, doveva essere smantellata nel 2022, ma il gigante dell’energia Equinor ha deciso nel 2020 di estendere la sua durata di vita al 2027. Lo stesso vale per gli altri due impianti di questo giacimento di idrocarburi, Statfjord B e C, che sono appena più recenti ma sono stati prorogati almeno fino al 2035. Questa estensione temporale è motivata dalle riserve rimanenti, che si suppone siano ancora “considerevoli” e che la recente impennata del prezzo del barile di petrolio ha senza dubbio ulteriormente rafforzato.
INTERESSE ECOLOGICO
Quindi tutto deve sparire? Non per alcuni ambientalisti. Secondo la sezione norvegese di Friends of the Earth, i piedi in cemento delle prime installazioni – in seguito sono state preferite le basi in metallo – costituiscono dei “fantastici” coralli artificiali con i loro fori e le loro asperità. “Chiunque abbia lavorato su una piattaforma vi dirà che ci sono molti pesci grandi che vivono nelle vicinanze, perché non c’è pesca industriale e i pesci possono raggiungere l’età di dieci anni“, spiega il biologo marino Per-Erik Schulze, consulente dell’organizzazione. L’ONG raccomanda quindi di lasciare i pilastri di cemento al loro posto – spogliati del resto e, in ogni caso, estremamente complessi da rimuovere – e di istituire aree marine protette intorno ad essi. Per uno scherzo del destino, dopo decenni di trafugamento delle profondità degli oceani, l’industria petrolifera darebbe così un modesto contributo alla loro protezione.