
La difesa comune è ormai “un passaggio obbligato”. Parola di Mario Draghi, che torna per la prima volta al Senato dopo la fine del suo mandato a Palazzo Chigi, per un’audizione davanti alle commissioni di Camera e Palazzo Madama per spiegare ratio e obiettivi del Rapporto sulla competitività dell’Ue, che oggi diventa sempre più attuale. Anzi, per dirla proproi con le espressioni usate da Draghi, “non è obsoleto, la sua attuazione è ancora più urgente” oggi, a distanza di alcuni mesi, durante i quali sono accadute “tante cose, tra cui anche le elezioni Usa e un mutamento dell’ordine mondiale in parte annunciato e in parte improvviso” (vedasi alla voce dazi: una “minaccia”). Con una sola stella polare: “Il ricorso al debito comune è l’unica strada”.
Restano tre i pilastri sui cui si muove l’ex Bce: costo dell’energia, regolamentazione e innovazione. “Una seria politica di rilancio della competitività europea deve porsi come primo obiettivo la riduzione delle bollette, per imprese e famiglie”, dice senza troppi giri di parole, sottolineando che “a rischio non è solo la sopravvivenza di alcuni settori tradizionali dell’economia (“l’acciaio, ad esempio, è tornato centrale in tantissime produzione”), ma anche lo sviluppo di nuove tecnologie ad elevata crescita”. L’esempio, in questo senso, sono i data center, fondamentali per lo sviluppo dell’Ia, e non solo. Inoltre, è necessario far crescere l’apporto delle rinnovabili, per le quali “è indispensabile semplificare e accelerare gli iter autorizzativi”. Oltre che disaccoppiarne i destini dal gas per la formazione del prezzo. Draghi ne fa anche un discorso di sicurezza energetica: ricordando come sono andate a finire le cose con la Russia, indica nella fine delle dipendenze un paletto insormontabile: “La produzione non può venire dalle fonti fossili”.
Sul gas si sofferma sia da un punto di vista strategico, suggerendo di “esercitare il nostro potere di acquisto, sfruttando la nostra posizione di più grande consumatore”, sia da un punto di vista politici, invitando chi ne ha la responsabilità a battersi per “una maggiore trasparenza sui prezzi di acquisto alla fonte”. Ecco perché è “indispensabile evitare rischi di concentrazione e rafforzare il livello di vigilanza”.
Altro capitolo ‘upgrade’ del rapporto Draghi è quello della difesa comune, dove l’ex premier vede un perimetro di sicurezza, che presuppone comunque una cessione delle quote di sovranità dei singoli Stati, ma anche una maggiore resilienza; ma allo stesso tempo un aspetto industriale: “Se l’Europa decidesse di creare la sua difesa e aumentare gli investimenti superando l’attuale frazionamento, invece di ricorrere in maniera così massiccia alle importazioni, ne avrebbe certamente un maggior ritorno industriale, nonché un rapporto più equilibrato con l’alleato atlantico anche sul fronte economico”. Sulle cifre indicate da Ursula von der Leyen per il Rearm Eu, però, Draghi fa capire chiaramente che la stima di 800 miliardi “a cui sono arrivati indipendentemente sia la Commissione europea che la Bce, quindi presumibilmente solida”, era stata fatta prevedendo “il raggiungimento del 2% degli obiettivi concordati per la Nato”. Dunque, “con le nuove esigenze saranno più degli 800 miliardi, che è un numero abbastanza robusto, ma è il fabbisogno che presumibilmente non può che essere soddisfatto dal settore pubblico a regole invariate”.
Ergo, per reperire queste nuove risorse, oltre al debito comune occorre “coinvolgere di più il settore privato” e “risparmiare sugli sprechi” anche grazie a una deregolamentazione. Qui si entra sul secondo pilastro del piano. Lacci e lacciuoli che se in un primo momento hanno protetto i cittadini europei, oggi frenano lo sviluppo, specialmente in settori che ovunque nel mondo sono in rapida espansione. “Ci sono 100 leggi focalizzate sul settore high tech e 200 regolatori diversi negli Stati membri. Non si tratta di proporre una deregolamentazione selvaggia ma solo un po’ meno di confusione – chiarisce -. Le regole (troppe e troppo frammentate) penalizzano, soprattutto nel settore dei servizi, l’iniziativa individuale, scoraggiano lo sviluppo dell’innovazione, penalizzano la crescita dell’economia”. Una matassa che ha finito per contribuire a creare “barriere interne al mercato unico che equivalgano a un dazio del 45% sui beni manifatturieri e del 110% sui servizi”. L’esempio che porta è esplicativo: “In pratica, abbiamo un mercato unico per i dentifrici e non ce l’abbiamo per l’Intelligenza artificiale”.
A proposito dei dazi, Draghi non sembra affatto stupito dalle mosse di Donald Trump. “Si capiva già che saremmo andati verso una guerra commerciale e l’Europa è più vulnerabile di tutti gli altri, perché” avendo buona parte del proprio Prodotto interno lordo prodotto dalle esportazioni “ci colpiscono di più di quanto possiamo fare noi a loro”. L’impatto sulle imprese italiane ed europee sarà “forte”, ma guai a proseguire sulla strada delle soluzioni bilaterali, “che in fondo vogliono i nemici dell’Ue”. Nel frattempo sondare nuovi mercati è “una strategia da perseguire”. A meno che non si decida di cambiare registro e puntare su “domanda interna, investire nelle nostre infrastrutture, spendere per la ricerca, l’innovazione e nella lotta al cambiamento climatico”. Una decisione che spetta all’Ue e alle istituzioni degli Stati membri: “Scelte di grande momento come forse non mai dalla fondazione dell’Unione