Ex Ilva, per i sindacati 320 milioni insufficienti. Confindustria: “Rischio bomba sociale”
Prime audizioni sul decreto del governo, per Fiom, Uilm, Usb e Aigi tra le priorità c'è il ristoro dell'indotto. I commissari straordinari: "Continuità produttiva un valore da tutelare, è interesse del Paese"
In attesa che si delinei il futuro dell’ex Ilva, il decreto varato la settimana scorsa dal governo entra nella fase calda dell’iter parlamentare. Le prime audizioni in commissione Industria al Senato servono a tracciare un quadro della situazione, che resta molto delicata. “La situazione è peggiorata in modo drammatico: gli impianti sono quasi fermi, la produzione è ai minimi termini, gli investimenti sull’ambientalizzazione sono bloccati, ci sono problemi di sicurezza sugli impianti“, denuncia il segretario della Uilm, Rocco Palombella. L’attenzione è concentrata sui fondi messi a disposizione dall’esecutivo nel provvedimento, nel caso si ricorra alla procedura di amministrazione straordinaria. “A differenza del passato, chiediamo di sbloccare immediatamente i 320 milioni che dovranno garantire totalmente i creditori funzionali alla continuità produttiva: i lavoratori dell’indotto, le rispettive aziende, i fornitori, la logistica, i servizi“, sottolinea ancora Palombella.
Sulla stessa lunghezza d’onda è il presidente dell’Associazione indotto AdI e general industries (Aigi), Fabio Greco, spiegando che questa sarebbe una mossa strategica, perché queste aziende “sarebbero le uniche a riprendere a lavorare già domattina“. Così come Usb, che chiede alle istituzioni di “farsi carico di sancire formalmente come anche le imprese dell’indotto, che concorrono in modo essenziale al sostentamento degli stabilimenti ex Ilva, debbano essere riconosciute come strategiche nell’ambito del settore siderurgico italiano e rese parte del Piano nazionale per la siderurgia” e in base a questo principio “destinare una parte importante dei 320 milioni, almeno 150, a queste imprese“.
Per Fiom-Cgil “è necessario garantire l’occupazione e il blocco dei licenziamenti, per tutti i lavoratori compresi indotto e appalti, in modo che sia assicurata anche la continuità produttiva“. Ecco perché, dicono Michele De Palma, segretario generale della Fiom, e Pino Gesmundo, segretario nazionale della Cgil, “il limite massimo di investimento di 320 milioni nel 2024 fissati nel decreto non è sufficiente a garantire il mantenimento della produzione di acciaio“. Servono “risorse aggiuntive a Taranto per la ripartenza degli altiforni e a Genova per la rimessa in funzione del carroponte e della linea della banda stagnata, oltre agli investimenti per manutenzioni in tutti gli stabilimenti al fine di garantire la salute, la sicurezza e la tutela dell’ambiente“.
Il filo conduttore resta quello di tenere vivo l’impianto. Anche per evitare il rischio di una “bomba sociale“, come avvisa il presidente di Confindustria Taranto, Salvatore Toma. La città, aggiunge, “non può assolutamente permettersi che questo stabilimento chiuda” così come è urgente che “i crediti enormi verso le aziende dell’indotto vengano ristorati“.
Del decreto parlano anche i tre commissari straordinari, Antonio Lupo, Francesco Ardito e Alessandro Danovi. “La norma dell’articolo 4 per noi è interessante perché ci consente di poter chiudere altre 3 procedure di amministrazione straordinaria pendenti, con la prospettiva di rimettere in bonis tre società sottoposte ad amministrazione straordinaria: Taranto Energia, Ilva servizi marittimi e Tillet, una società di diritto francese“, dice Lupo. Mentre Danovi, parlando dell’ipotesi amministrazione controllata e del finanziamento da 320 milioni, sottolinea l’importanza di destinare questa somma alla continuità produttiva: “Un valore da tutelare, un obiettivo di interesse primario per il Paese“. Il dl è atteso nell’aula del Senato dal 27 febbraio, nel frattempo il lavoro del governo continua. Spunta, infatti, la data di venerdì 2 febbraio come possibile inizio dell’ispezione dei commissari nello stabilimento di Taranto. Ipotesi non smentita da fonti governative.