I livelli di stoccaggio di gas naturale statunitensi sono aumentati di soli 18 miliardi di piedi cubi (mezzo miliardi di metri cubi) durante la settimana conclusasi il 12 agosto, ben al di sotto delle aspettative del mercato. Le scorte di stoccaggio sono così salite a 2,519 trilioni di metri cubi secondo l’ultimo rilevamento della US Energy Information Administration del 18 agosto.
La diffusione della notizia ha mandato in tilt il prezzo del gas in America, scambiato all’Henry Hub. Il future con scadenza a settembre è salito vertiginosamente fino a costare più di 9,50 dollari nell’ora successiva alla pubblicazione del rapporto. Poi il crollo in zona 9 dollari, rimanendo comunque sui massimi degli ultimi 15 anni, per rivedere quotazioni simili o superiori bisogna infatti risalire alla crisi del 2008 (il primo giugno di 14 anni fa si arrivò a 13,32 dollari) o a tre anni prima, quando gli uragani devastarono le piattaforme lungo il golfo del Messico (settembre 2055 a 13,55 dollari). C’è apprensione dunque, poiché la domanda di energia elettrica a gas superiore al normale ha continuato a restringere gli equilibri tra domanda e offerta, tuttavia i prezzi americani sono niente in confronto a quelli asiatici e soprattutto a quelli europei.
A differenza del mercato del greggio, che è prevalentemente internazionale, il mercato del gas naturale è ancora molto frammentato. Non è un mercato globale integrato, rappresenta invece un insieme di mercati regionali che sono solo vagamente collegati tra loro. Pertanto, ogni area ha le proprie ragioni locali per l’aumento dei prezzi.
Tre sono le piazze che determinano i prezzi nel mondo: l’Henry Hub di New York, vedi sopra, il Jkm (Japan Korean market) punto di riferimento per il nord-est asiatico, e il Ttf (Title Transfer Facility) di Amsterdam ormai famosissimo in Europa. I primi due sono calcolati in dollaro per milione di Bty, British Termal Unit. Se però uniformassimo la quotazione in euro per megawattora allora notiamo che il Vecchio continente è quello messo peggio, causa tensioni e sanzioni con la Russia. Infatti il gas americano costa circa 30 euro/MWh, il Jkm 196,5 e il Ttf 244 (ieri alle 15.30). Il gas europeo è più caro del 700% rispetto a quello statunitense. Segno che, al di là delle pressioni inflazionistiche simili al di là e al di qua dell’Atlantico, la zavorra sulla competitività europea è notevole. È questo il vero spread. L’aumento dei tassi per raffreddare i prezzi probabilmente non bloccherà la corsa del metano in Europa, poiché c’è un tema di approvigionamento serio, problema che l’America sicuramente non ha, anzi ce lo esporta.
Chi invece sta avvicinandosi ai nostri livelli è l’Asia dove cresce la domanda di gas, basti pensare che in Cina è cresciuta nel 2021 del 12,8% (anno su anno) e pare destinata a salire di un altro 7% nel 2022, secondo S&P Global. In effetti, Pechino ha già superato il Giappone come maggiore importatore mondiale di GNL. Altrove in Asia, il super caldo ha stimolato la domanda di raffreddamento, ma la scarsità di carbone ha fatto sì che Paesi come India, Bangladesh e Pakistan dovessero fare affidamento sulle importazioni di gas liquefatto per aiutare le centrali elettriche ad aumentare la produzione.
Le pressioni sui prezzi non hanno abbassato la domanda. La giapponese Nippon Steel Corp, secondo produttore di acciaio al mondo, ha recentemente acquistato un carico di GNL per la consegna a settembre al prezzo di 41 dollari l’uno, il prezzo più alto mai pagato in Giappone. Però il gas non è infinito, così l’Australia ha deciso che limiterà l’export per tutelare i propri consumi. Di conseguenza il prezzo del contratto con scadenza a ottobre è balzato a 57 dollari per milione di Btu (appunto 196,5 euro/MWh), un valore destinato a salire a giudicare dalle quotazioni dei future invernali: a dicembre-gennaio si supereranno i 200 dollari “europei”. Peccato che in quel periodo, nel Vecchio Continente, si pagheranno almeno 250 euro per megawattora, mentre in America ne serviranno sempre e solo 30.