La vicenda dell’ex Ilva di Taranto ed in particolare la situazione attuale, con il disimpegno ormai certificato di Arcelor Mittal socio di maggioranza (62%) e la fase di grande incertezza per il futuro che si è aperta in questi giorni, si prestano ad una serie di riflessioni sul tema dell’industria di base nel nostro Paese e in Europa, e su come la questione sia stata affrontata (male) fino ad oggi.
Da una parte, con riferimento alle questioni italiche, è stato giustamente sottolineato (da Marco Bentivogli sul ‘Foglio’ del 15 gennaio u.s.) che questa storia dimostra come l’atteggiamento antindustriale e populista, che così grande spazio ha avuto nel nostro Paese negli ultimi 15 anni, abbia danneggiato la nostra economia e abbia fatto la fortuna delle multinazionali.
Dall’altro lato, con più generale riferimento ad un mainstream europeo dello stesso periodo, ha trovato alimento un pensiero che è facile riscontrare in molti commenti e analisi, anche autorevoli, apparsi in questi giorni sui media a proposito della vicenda di Taranto; pensiero che in sostanza ritiene che dell’acciaio e in generale dell’industria di base l’Europa e l’Italia possano fare a meno a favore di altri modelli di industrializzazione più adeguati nel quadro della divisione internazionale del lavoro.
Entrambe le posizioni all’interno dell’Unione, populismo antindustriale e negazione del bisogno strategico di produzione di acciaio, sono a mio giudizio figlie di un multiplo ‘pensiero debole’, di un intreccio di ideologie sbagliate che bisogna combattere se si vuole salvare ciò che di industria e di produzione esiste ancora in Europa, e in generale se si vuole combattere il lento ma inesorabile declino del continente rispetto alle altre grandi aree economiche del mondo (USA e Cina, ma in prospettiva anche India).
Quali sono queste ideologie che si intrecciano dando vita a una visione pericolosa e sbagliata del futuro economico del nostro continente?
Si parte con un’ideologia ambientalista estrema che ha trasformato la transizione energetica in una battaglia anti impresa, ingaggiata anche da reduci sconfitti dell’anticapitalismo, e che rifiuta ogni approccio pragmatico e razionale declinando solo obiettivi di decarbonizzazione sempre più alti e sempre più astratti e irraggiungibili; vi si aggiunge un’ideologia di estremismo mercatista e globalista che pensa che tutto possa essere comprato ovunque, che non vi debba essere alcuna barriera e/o protezione delle industrie nazionali e che non tiene in nessuna considerazione chi (settori produttivi e lavoratori) ha già pagato duramente i processi di globalizzazione; un’ideologia del primato della finanza sull’industria: finanza che ha fatto della transizione green un’ennesima occasione di business, trasformando anche le azioni di tutela ambientale e di decarbonizzazione in nuovi business finanziari (si veda il mercato delle quote CO2 europeo, che le industrie devono comprare per continuare a produrre e il cui prezzo è influenzato fortemente dalla speculazione di fondi di investimento e banche sempre alla ricerca di nuove asset class).
La risultante di questo intreccio di forze è una posizione fondamentalmente contraria all’industria, specie quella di base, che così viene vissuta senza passione anzi con insofferenza, come un fastidio da rimuovere al più presto.
Nella vicenda drammatica dell’Ilva degli ultimi 12 anni ci si imbatte continuamente in questo concomitare di forze anti impresa che hanno contribuito a rendere la situazione sempre più complessa e difficile fino ai giorni nostri.
L’ambientalismo estremista di comitati e movimenti vari ha voluto rappresentare la situazione di Taranto come quella di una fabbrica omicida, ed ha creato le premesse per un’azione della magistratura spesso violenta e scomposta, che ha messo in gravissima difficoltà le Amministrazioni locali e regionali, i sindacati, il management che si è succeduto alla guida della fabbrica.
Intendiamoci: non è che impianti come quelli dell’Ilva non pongano problemi ambientali. È così per tutte le siderurgie da ciclo integrale (e cioè con cockerie, sinter e altoforni) d’Europa e del mondo.
Ma negli altri Paesi europei è la Pubblica amministrazione che, attraverso i suoi atti e prescrizioni e attenendosi alle direttrici della UE, decide se un impianto industriale può lavorare o no. A Taranto si è creato un cortocircuito pazzesco per cui nonostante il fatto che la fabbrica ai tempi dei Riva avesse ottenuto un’AIA (Autorizzazione integrata ambientale) molto restrittiva, la stesse nei fatti attuando e non avesse mai sforato i limiti emissivi di legge, la magistratura è intervenuta lo stesso con sequestri degli impianti, atti prescrittivi, incriminazioni di proprietari e manager.
L’accusa è stata di ‘disastro ambientale’ e ha portato a pesantissime condanne già nel primo grado del giudizio. Vedremo l’esito degli appelli.
Nel momento in cui (siamo nel 2012/2013) in conseguenza alle azioni della magistratura la situazione va fuori controllo, il Governo della Repubblica (Enrico Letta premier, Orlando Ministro dell’Ambiente) interviene con un commissariamento dell’Ilva completamente fuori dell’ordinamento giuridico del Paese (quale è infatti la base giuridica di un commissariamento ambientale nella nostra legislazione?); commissariamento che in quattro anni ha avuto come conseguenza la distruzione del patrimonio netto di oltre 4 miliardi di euro che i Riva lasciarono in Ilva quando furono praticamente espropriati senza indennizzo, con un atto che ancora oggi rappresenta una macchia sulla reputazione internazionale dell’Italia.
Questo ambientalismo estremista, che certamente ha influenzato la magistratura locale, fa sì che oggi, pur essendo realizzate praticamente tutte le prescrizioni dell’AIA e Taranto sia una tra le siderurgie a ciclo integrale più ‘ambientalizzate’ del mondo, gli impianti siano ancora sotto sequestro. Ciò impedisce ovviamente il trasferimento di proprietà degli stessi con tutto ciò che ne consegue per la finanziabilità dell’impresa.
L’estremismo mercatista e globalista ha fatto sì che quando nel 2017 il ministro Calenda del Governo Gentiloni organizzò una gara internazionale per la vendita dell’Ilva, seguendo rigidamente i parametri dell’UE (in particolare i criteri dettati dalla Commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager), si diede più importanza al prezzo che al piano industriale e ambientale presentati dagli offerenti, e si ritenne ininfluente la nazionalità degli acquirenti. Così facendo si favorì l’offerta degli indiani di Arcelor Mittal, accompagnati per un periodo brevissimo dal gruppo Marcegaglia, rispetto a quella dell’italiano Arvedi che si era alleato a CDPP,Del Vecchio e un altro indiano, Jindal.
Nessun altro grande Paese del mondo avrebbe affidato ad una gara basata su astratti e generici parametri di mercato la soluzione di un problema strategico come quello dell’Ilva. Dietro il principio di un’asta competitiva basata principalmente sul criterio del prezzo sta il disconoscimento del fatto che l’acciaio, per una grande economia industriale come quella italiana, è strategico. In fondo il retropensiero di un simile comportamento è che si tratti di una commodity di basso valore che non merita alcuna riflessione e cautela strategica.
Come è andata è sotto gli occhi di tutti. È facile dirlo adesso, certamente era più difficile pensarlo allora. Mittal non ha mostrato alcun interesse allo sviluppo di Taranto, giungendo fino al disimpegno totale. L’unico obiettivo è sembrato essere quello del controllo e cioè di assicurarsi che nessun concorrente straniero potesse impadronirsi di quell’impianto; e forse, quando ci si è resi conto della difficoltà e complessità della situazione, l’obiettivo è diventato quello di gestire una lenta agonia fino alla morte cercando di recuperare in uscita più soldi possibile. È il film di questi giorni.
Quindi, in definitiva, il pensiero strategico attento alla economia e alla sicurezza nazionale che l’Italia non è stata capace di esprimere in questi anni ha improntato la presenza e l’azione di Mittal, ben attento agli equilibri competitivi globali dell’acciaio e desideroso di ‘inertizzare’ fino a spegnerlo l’impianto più importante d’Europa rivolto al Mediterraneo e alla sua crescita.
Il Governo Conte, attraverso l’eliminazione dello scudo penale messo a suo tempo per proteggere i gestori dell’impianto dalle intemperanze della magistratura, ha dato a Mittal un gigantesco alibi per il disimpegno e per il perseguimento del suo disegno strategico.
Un alibi con cui la multinazionale ha giustificato: la scomparsa del management inizialmente inviato per la gestione di Taranto; il deconsolidamento dell’ex Ilva dal bilancio di Arcelor Mittal; il fatto di non mettere a disposizione dell’ex Ilva la rete commerciale del gruppo; il rifiuto di coprire i fabbisogni finanziari dell’azienda. Arcelor in questi anni, minacciando l’uscita, ha ottenuto dai Governi Conte condizioni relative alla governance e ad eventuali indennizzi che il Ministro Urso al Senato, annunciando la rottura con la multinazionale franco-indiana, ha definito leonine.
In base a questi patti, che finalmente cominciano ad emergere, anche se il socio pubblico (Invitalia) ci mette tutti i soldi per sostenere l’azienda, il socio privato rimane al comando e in caso di uscita per presunte inadempienze dello Stato italiano ha diritto a un indennizzo. Tutto ciò è evidentemente inaccettabile ma mostra ancora una volta un’incompetenza e una superficialità di quei governi che ha dell’incredibile.
Che fare ora?
Ha senso lavorare per la salvezza e per il rilancio dell’ex Ilva, che molti vorrebbero chiudere senza rendersi conto delle conseguenze non solo sociali ma economiche e industriali di tale scelta?
La risposta a questa domanda è: certamente sì.
L’Italia, checché dicano e scrivano quelli che di industria non capiscono nulla, può e deve impegnarsi per il salvataggio e il rilancio di Taranto.
L’operazione deve essere un’operazione di sistema che, come tutti i grandi progetti industriali che attengono a interessi strategici nazionali, deve vedere coinvolti plurimi attori, pubblici e privati, sulla base di un disegno di politica industriale condiviso.
Non si tratta di proporre nuove nazionalizzazioni fuori dal tempo e dalla storia. La Finsider e l’IRI non esistono più da decenni.
Ma ipotizzare una presenza transitoria dello Stato che accompagni il processo di decarbonizzazione dell’impianto fino a giungere a produzioni green rispettose dell’ambiente, delle popolazioni circostanti e degli indirizzi europei non mi sembra una bestemmia. Tedeschi e francesi stanno facendo esattamente questo e nessuno grida allo scandalo. A seconda delle condizioni contingenti vengono usati strumenti diversi, finanziari, di supporto industriale ed energetici per favorire e sostenere la transizione verde della siderurgia in quei Paesi.
Il gigantesco paradosso è che l’Unione Europea, nata come Comunità del Carbone e dell’Acciaio, rincorrendo l’estremismo ambientalista di cui si è detto, ha costruito un sistema di regole che di fatto chiudono le produzioni di acciaio da altoforno in Europa a partire dalla fine del decennio in corso. In quel momento non vi saranno più certificati gratuiti assegnati ai singoli impianti e il loro acquisto, al prezzo di oggi, renderà impossibile l’economicità di quelle produzioni.
Non si sa bene se coscientemente o incoscientemente l’Unione Europea si è inoltre messa in una condizione di grave pericolo anche per le industrie a valle della produzione di acciaio in particolare per l’automotive.
Con i forni elettrici (decarbonizzati) si possono fare tutti gli acciai tranne il così detto ‘profondo stampaggio’, che è quello che serve per le carrozzerie delle auto. Se le cose non cambiano con il nuovo Parlamento Europeo, alla fine del decennio in corso si creerà una nuova dipendenza strategica per l’industria e l’economia europee: per fabbricare auto da noi bisognerà necessariamente comprare in Asia l’acciaio per le carrozzerie .
Per questa ragione bisogna lavorare anche a Taranto per un piano industriale sostenibile economicamente e ambientalmente, per il recupero di impianti di laminazione e di verticalizzazioni che restano tra i più importanti d’Europa, per decarbonizzare la produzione di acciaio primario attraverso la costruzione di due impianti di DRI (Direct Iron Reduction) che funzionano a gas e idrogeno invece che a carbone, e con i quali si può arrivare a produrre 5-5,5 forse 6 milioni di tonnellate di acciaio l’anno.
Sarebbe certamente un’Ilva più piccola di quella di un tempo: ma sarebbe viva e sostenibile.
Non si sottovaluti questo dibattito intorno all’Ilva. Esso dirà molto riguardo alla fine che faranno tutti i settori manifatturieri che stanno affrontando, per decarbonizzare i loro processi, una transizione difficilissima. Si tratta dei settori che sono la spina dorsale del nostro sistema manifatturiero. Un sistema capace, anche in un anno di rallentamento come il 2023, di fatturare 1200 miliardi di euro e di esportarne la metà dando lavoro ad oltre 4 milioni di cittadini italiani.