Ha vinto Lula, che per la terza volta è presidente del Brasile. Ha vinto in barba al suo passato controverso, ai quasi due anni passati in carcere per corruzione e riciclaggio – accuse invalidate per tecnicismi dal tribuna federale e poi passate in prescrizione – alla resistenza estrema di Jair Bolsonaro, l’ormai ex inquilino del Planalto. Ha vinto ma non ha trionfato: il margine sul suo avversario è minimo e questo, verosimilmente, lo costringerà a scendere a patti con la destra e il suo leader. Insomma, il Brasile ha scelto di cambiare ma non ha completamente cancellato il suo passato recente, confermando di essere un gigante dai piedi d’argilla, un Paese spaccato in due.
Tra le promesse elettorali che dovrà mantenere, Lula ha messo al centro la limatura delle diseguaglienze sociali, la sanità e l’ambiente. Che per il Brasile significa Amazzonia. La tutela della foresta e il piano di deforestazione zero – una scimmiottatura del net zero in termini di C02 – non sono in realtà solo un tema ambientale ma anche economico. Legati all’Amazzonia e alle sue enormi risorse ruotano molti degli interessi del Brasile, la cui economia non è fortissima. Sfruttare le ricchezze del sottosuolo, lucrare su legnami pregiati, consentire alle multinazionali straniere di piantare le tende in cambio di milionate di dollari è sempre stata la scorciatoia per tenere in piede un sistema zoppicante, dove la classe media è risibile e ai ricchissimi si contrappongono i poverissimi.
A 77 anni e al terzo mandato, con 580 giorni di carcere sulle spalle, Lula non può più sbagliare. E, soprattutto, non può venire meno alle sue promesse. Perché la destra, in primis Bolsonaro, lo terranno sotto controllo. Proprio sull’Amazzonia che, guarda caso, anche l’ex presidente aveva fatto diventare all’improvviso un cavallo di battaglia. Magari ne sapremo di più tra qualche settimana, alla COP27 di Sharm el Sheikh, sperando che non siano solo slogan elettorali.