Abbiamo parlato due settimane fa in questa rubrica di Inattivisti e puntualmente li vediamo all’opera. Il campo di azione, questa volta, è lo stop alla vendita di auto termiche, cioè quelle a benzina, diesel, gpl e metano. Pertanto, nel caso in cui i negoziati con i governi Ue vadano a buon fine, in Europa il divieto scatterà dal 2035. Significa che a quel punto, ovvero fra 13 anni, questa tipologia di automobili non sarà acquistabile, ma potrà ancora circolare; a meno che alcune città, come già accade ora, aprano l’accesso ai centri soltanto alle auto elettriche. Secondo alcuni il limite è persino troppo lontano, per i risultati che DOBBIAMO ottenere nel limitare le emissioni. Ma è un risultato importante e si spera che il resto del mondo segua poi l’esempio europeo. Ci sono già alcuni segnali in tal senso.
Ma dicevamo degli ‘Inattivisti’, di coloro che trovano sempre una scusa o una giustificazione per non fare nulla. Pur con un tempo piuttosto ampio per adattarsi al cambiamento, pur se da decenni è noto il fatto che questo termine sarebbe arrivato visti i rischi a cui l’intera umanità è sottoposta per i cambiamenti climatici in corso, puntualissimi sono arrivati piagnistei e lamenti. E le grida di dolore – che hanno questo tono soprattutto nel nostro Paese – sono tanto più forti quanto grande è stato il menefreghismo manifestato in negli anni rispetto alla necessità di cambiare nettamente politiche ed elaborare strategie di sviluppo alternative e sostenibili. Fateci caso, sono gli stessi soggetti che accusano chi si occupa di ambiente di ‘essere capace solo di dire no a tutto’ e che poi a fronte di ogni proposta concreta e ogni cambiamento strategico riescono soltanto a dire ‘no’ a tutto, appunto. Perché normalmente la loro specialità è rovesciare la realtà. Divieto ai sacchetti di plastica per lo sfuso nei supermercati? No. Direttiva sulle plastiche monouso che vieta la vendita dieci prodotti ormai da un anno? No. Incentivi alle fonti rinnovabili? No (per quelle fossili invece, nulla da dire…).
In questo caso, citano i rischi per i posti di lavoro nel nostro Paese, infiammando le preoccupazioni legittime dei lavoratori più deboli con l’obiettivo – in realtà – di tutelare gli interessi di chi vuole continuare a speculare sulla situazione attuale senza investire nel cambiamento. Accusano chi prospetta – in base a dati e fatti – i rischi derivanti dai problemi ambientali come ‘catastrofista’ e poi praticano a piene mani terrorismo psicologico e sociale.
Ricordano le proteste di fine Settecento e inizio Ottocento per l’introduzione dei telai meccanici per la tessitura oppure le proteste tra fine Ottocento e inizio Novecento per il passaggio dal trasporto a cavallo a quello a motore.
Ovviamente, si tratta sempre di passaggi critici in cui la transizione deve essere gestita, accompagnata e programmata con attenzione dalla politica che rivendica costantemente il proprio ruolo nella auspicata rivoluzione verde (‘La scienza deve dare le indicazioni ma le scelte devono essere politiche’) ma che poi ha paura di esercitarlo perché comporta complessità, comporta la capacità di gestire il presente con lo sguardo rivolto allo sviluppo futuro.
Gli economisti sostengono da tempo che il passaggio a produzioni e modelli aziendali più ecologici avrà un effetto positivo sull’occupazione e la crescita. Ma ovviamente bisogna avere uno sguardo ampio: gestire le criticità di oggi, con ricadute localizzate in base alle caratteristiche produttive, per avere risultati e benefici domani e su più ampia scala territoriale.
La difficoltà riguarderà i lavoratori più anziani e meno qualificati: di quelli ci si deve occupare, favorendo invece parallelamente lo sviluppo di quei nuovi posti di lavoro (e più qualificati) che scaturiranno dall’intero processo, non solo relativamente alle auto elettriche o a idrogeno ma all’intero comparto green e blue.