
Una misura per dare ossigeno ai lavoratori rischia di trasformarsi in un boomerang. L’allarme lo lancia l’Ufficio parlamentare di bilancio, nelle pieghe del Rapporto annuale sulla politica di bilancio, perché la nuova disciplina Irpef introdotta nella legge di Bilancio 2025, che ha reso strutturale il taglio del cuneo fiscale “attraverso l’introduzione di un bonus e detrazioni specifiche per il lavoro dipendente”, allo stesso tempo ha generato un “maggiore prelievo da drenaggio fiscale associato a 2 punti percentuali di inflazione” che risulta “più alto di circa 370 milioni (+13%)”.
In poche parole, la microsimulazione dell’Upb riscontra che, nel passaggio dal regime 2022 a quello 2025, gli stipendi sono stati spinti verso aliquote maggiori per effetto del fiscal drag, colpendo paradossalmente di più operai (passati dal 3,2 al 5,5%) e impiegati (dall’1,7 al 2,3). Dunque, avverte Upb, “in un contesto in cui la dinamica retributiva è già risultata insufficiente a compensare l’inflazione”, con “l’intensificazione del prelievo fiscale rischia di erodere in misura considerevole gli incrementi nominali delle retribuzioni”.
Il tema fiscale è sotto i riflettori dell’attualità politica, soprattutto dopo gli annunci della premier, Giorgia Meloni, che punta al taglio delle tasse per il ceto medio, e del vicepremier, Matteo Salvini, che invece spinge per la pace fiscale. Due misure che all’apparenza non possono stare insieme, vista la situazione dei conti pubblici italiani, ma che la Lega vorrebbe già nella prossima legge di Bilancio. La risposta la dovrà fornire il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che a margine della presentazione della relazione annuale dell’Ufficio parlamentare di bilancio, non si sbilancia: “Io faccio quello che c’è scritto nel programma politico del governo e cerco di renderlo possibile. Tutti questi annunci li condivido, però a me sta il compito di creare le condizioni perché si possano verificare”.
Il quadro generale, però, sconta “rischi e incertezze” rappresentati nel breve termine dalla “piena attuazione delle riforme e degli investimenti del Pnrr e l’effettiva realizzazione del programma di dismissioni mobiliari scontato nell’evoluzione del rapporto fra debito e Pil”, sottolinea sempre Upb, e nel medio-lungo termine “dalla transizione demografica, l’impatto del cambiamento climatico e della transizione energetica, nonché dall’incertezza geopolitica”. Fattori di cui è ben consapevole Giorgetti, che mette in luce come la stima di crescita dello 0,6% per l’intero 2025, fissata nel Dfp, sia “pienamente realizzabile e auspicabilmente superabile”. Tant’è che “nel primo trimestre del 2025 il Pil ha segnato una crescita dello 0,3% rispetto al trimestre precedente”. Riflessioni corroborate anche dalla presidente dell’Upb, Lilia Cavallari, che nella sua relazione, infatti, dice con chiarezza che “il ritorno a dinamiche di crescita moderate non è ineluttabile”.
Le insidie, però, sono dietro l’angolo. O meglio, oltreoceano, perché sui dazi Usa resta un punto interrogativo pesante. Le previsioni dell’Ufficio parlamentare di bilancio ipotizzano “un impatto negativo sul Pil dell’Italia pari a due decimi di punto nel 2026 e un decimo nel 2027”, colpendo soprattutto settori come l’industria farmaceutica, l’attività estrattiva e l’automotive. Per questo Giorgetti, pur augurandosi dazi zero reciproci tra Stati Uniti ed Europa, sostiene apertamente che “un accordo di compromesso appare di gran lunga preferibile a questa situazione di annunci frequenti, e a volte contraddittori, che produce effetti destabilizzanti sugli operatori economici”. Il pericolo, di fatti, è grande: “L’acuirsi di tensioni protezionistiche innescato dal nuovo corso dell’Amministrazione statunitense rischia di frenare il commercio mondiale e accentuarne la frammentazione”, avvisa Cavallari.
L’Upb dedica spazio anche al Pnrr, come leva per la crescita. Anche se “il rischio di non realizzare interamente la spesa entro il termine del 2026 è significativo”. Per essere ancora più chiari: “La quasi totalità dei progetti è in fase di esecuzione, anche piuttosto avanzata, sebbene rimanga ancora limitata la quota di progetti nella fase conclusiva (32,4% per 26,8 miliardi)”, specifica Cavallari.
Senza contare un’altra spada di Damocle che incombe sui conti italiani, dovuto agli effetti negativi sul Pil del cambiamento climatico: “Un impatto annuale sulla finanza pubblica che potrebbe arrivare a 5,1 punti percentuali del Pil nel 2050”. Se a livello globale si arrivasse a politiche di contrasto omogenee e coordinate, invece, il rischio crollerebbe allo 0,9%. In questo quadro, dunque, non sarà un male il programma europeo per l’industria della difesa. Secondo la metodologia di calcolo della Nato “per il 2024 la spesa italiana è stata pari all’1,5% del Pil”, analizza Upb, ricordando che la Manovra 2025 “prevede un incremento delle spese, rispetto allo scenario a legislazione vigente, complessivamente di 3,9 miliardi nell’anno in corso, 3,3 miliardi nel 2026 e 4,6 miliardi nel 2027”. Semmai, sottolinea l’ente, “la sfida principale per l’Italia consisterà nel bilanciare l’eventuale incremento della spesa per la Difesa con le esigenze di mantenimento della sostenibilità delle finanze pubbliche”. Per il governo, dunque, tanti spunti di riflessione. Ora tocca alla politica rispondere.